Introduzione 1

Sul concetto di anti-lavoro regna una certa confusione. Nemmeno il mio opuscolo Aux origines de l’anti-travail (Échanges et Mouvement, Parigi 2005) vi sfugge. La confusione consiste nel non specificare in maniera sufficiente questo concetto. Essa porta, da un lato, a collocare nella categoria dell’anti-lavoro alcuni comportamenti, come l’indolenza del lavoratore salariato che cerca generalmente di fare il meno possibile, oppure il fatto di preferire al lavoro la disoccupazione (indennizzata) o la vita ai margini. Queste pratiche di rifiuto del lavoro, di resistenza, sono vecchie come il proletariato, e non definiscono l’anti-lavoro moderno. Dall’altro, la confusione consiste nel ricondurre alla categoria dell’anti-lavoro delle pratiche di resistenza allo sfruttamento che in realtà sono pro-lavoro, come ad esempio il luddismo. Ora, io ritengo sia meglio riservare il termine «anti-lavoro» alle lotte della nostra epoca (a partire dagli anni intorno al ’68), le quali indicano che il proletariato non è più la classe che si affermerà nella rivoluzione come la classe del lavoro egemonico, come la classe che renderà il lavoro obbligatorio per tutti e sostituirà la borghesia alla direzione dell’economia.

Per meglio comprendere la specificità che bisogna accordare al termine «anti-lavoro», è necessario rimettere la questione in una prospettiva storica. Precisiamo che in questa sede ci interesseremo alle lotte che si svolgono in fabbrica, contro le modalità abituali del rapporto fra i lavoratori ed i loro mezzi di produzione (assenteismo, sabotaggio, indisciplina in generale).

1. Il luddismo

Il luddismo viene spesso identificato con una reazione spontanea e rabbiosa degli operai inglesi dell’inizio del XIX secolo, contro l’introduzione di nuovi macchinari. Il fatto che abbiano distrutto delle macchine fa pensare a certe forme moderne di sabotaggio, in particolar modo nell’ambito del lavoro alla catena di montaggio. Questa valutazione, tutt’altro che esatta, spiega il fatto che il luddismo venga talvolta assimilato all’anti-lavoro.

Ricordiamo le caratteristiche principali del luddismo2. Esso comprende tre episodi, tutti avvenuti nel corso degli anni 1810:

La violenza contro le macchine non deve indurre in confusione: il luddismo è pro-lavoro. Esso difende la qualificazione contro il macchinismo, ma anche – e forse soprattutto – contro il lavoro di bassa qualità (cut-up), che favorisce l’impiego di lavoratori non qualificati (colting), e perfino di donne! Il suo contenuto è solo apparentemente anti-lavoro. Il luddismo difende il lavoro all’antica. Afferma la dignità del lavoratore contro la dequalificazione e, incidentalmente, contro il macchinismo. Tutto ciò passa attraverso un’attività politico-sindacale che si associa alla violenza contro padroni e macchine. Il luddismo è stato attivo all’interno di correnti sindacali clandestine, e non si è opposto a lunghe, costose ed inutili campagne di lobbying parlamentare. Le distruzioni di macchine non erano il risultato di esplosioni di rabbia spontanea, ma operazioni minuziosamente organizzate. È questo che spiega, in definitiva, il fatto che i luddisti non distruggessero le macchine su cui lavoravano, ma solo quelle dei padroni o dei lavoratori colpevoli o di utilizzare macchine proscritte, o di fabbricare merci di qualità inferiore, o di lavorare sotto-tariffa. La rivendicazione di un lavoro di buona qualità, svolto secondo i metodi del lavoro qualificato e remunerato in maniera adeguata – ecco cosa caratterizza, fra l’altro, il luddismo.

2. Il sabotaggio secondo Pouget e Smith

Pouget ha fatto entrare il sabotaggio nel discorso sindacale al congresso della CGT3 del 1897. Da allora, il suo opuscolo Il sabotaggio ha conosciuto un numero incalcolabile di riedizioni. Pouget viene regolarmente invocato come il precursore dell’operaio-massa4 odierno. Il sabotaggio da lui teorizzato viene spesso indicato come l’atto di nascita dell’anti-lavoro. Esaminiamolo più da vicino. Il sabotaggio invocato da Pouget (1911) non è anti-lavoro, è anti-padrone.

«Pagate al lavoratore un un buon salario e vi darà il meglio in fatto di lavoro e abilità. Pagate al lavoratore un salario insufficiente e non avrete più il diritto di esigere la migliore qualità e una maggiore quantità di lavoro, più di quanto non l’abbiate esigendo un cappello da 5 Fr. per 2,50». (Émile Pouget, Il sabotaggio, Maldoror Press 2015, p. 11)5.

Pouget vuole dimostrare, prima di tutto, che il sabotaggio è un modo efficace per piegare i padroni sulle questioni di salario etc. Inoltre, il sabotaggio fa emergere la padronanza che i lavoratori hanno della produzione, attraverso i loro sindacati. Il sabotaggio di Pouget non è furioso e distruttivo. È calcolato, preparato. Esso partecipa del controllo che i lavoratori hanno del proprio lavoro, sia dal punto di vista della tecnica che dell’organizzazione collettiva. Nel suo opuscolo, Pouget cita numerosi esempi, che riguardano quasi esclusivamente lavoratori qualificati. E spesso non sono nemmeno dei casi di sabotaggio veri e propri, ma idee, proposte su ciò che i lavoratori potrebbero fare. Il suo sabotaggio mira a sostenere delle rivendicazioni, in vista di uno sciopero (come avvertimento diretto ai crumiri). Per Pouget, il sabotaggio è principalmente il rallentamento della produzione. Egli menziona anche l’abbassamento della qualità del lavoro (per coloro che lavorano al montaggio), quindi il danneggiamento delle merci prodotte. La distruzione parziale o totale, reversibile o meno, dei mezzi di produzione viene citata meno spesso. Ma anche in questo caso, non c’è un’ostilità particolare nei confronti del lavoro. Pouget cita con approvazione un sindacalista delle ferrovie:

«Bisognerebbe scegliere dei compagni fra i professionisti, fra coloro che, conoscendo al meglio i meccanismi del servizio, saprebbero trovare i settori sensibili, i punti deboli e intervenire a colpo sicuro senza compiere una stupida distruzione, così da rendere inutilizzabile in un sol colpo e per qualche giorno, con un’azione efficace, accorta, intelligente ed energica, il materiale indispensabile […]» (op. cit., p. 61; i corsivi sono di Pouget, nda).

Negli Stati Uniti, il testo di Pouget è stato ampiamente ripreso da Walker C. Smith, membro degli Industrial Workers of the World. Ma Smith è più esplicito di Pouget quanto alla disposizione pro-lavoro del sabotaggio. Facendo leva sulla padronanza dei lavoratori sui procedimenti della produzione, egli arriva ad invocare un «sabotaggio costruttivo»: il sabotaggio organizzato rafforza la solidarietà fra i lavoratori, e conferisce loro un controllo supplementare sulla produzione. Egli designa come sabotaggio costruttivo anche il fatto di migliorare di nascosto la qualità dei prodotti che vengono venduti ai lavoratori, e che i padroni adulterano per aumentare i propri profitti. E conclude:

«Se la situazione evolverà seguendo il suo corso attuale, ivi compresa la possibilità di un controllo sempre maggiore da parte dei lavoratori sulla loro industria, allora la tattica di lotta si svilupperà in base a ciò, ed il sabotaggio costruttivo farà parte di tutto questo.» (Walker C. Smith, Sabotage, its history, philosophy and fonction, 1913)6.

Al volgere del XX secolo, il sabotaggio ha partecipato all’affermazione della centralità del lavoro nella società capitalistica dell’epoca. I lavoratori (almeno quelli che vengono menzionati nei due testi) hanno una relativa autonomia nell’ambito della loro attività. Essi esercitano un certo controllo sul ritmo del lavoro e sulla sua qualità. I lavoratori sanno come vengono prodotte le merci dal punto di vista tecnico. Il sabotaggio consiste nel farne abbassare la quantità e/o la qualità, cosa che ovviamente infastidisce il padrone. Ma questo sabotaggio svela anche la possibilità di un controllo da parte dei lavoratori sulla produzione e, per estensione, sulla società nel suo insieme. Il sabotaggio di Pouget e di Smith rientra nel progetto programmatico della rivoluzione operaia7:

«Per quanto riguarda i procedimenti della produzione, siamo in possesso dell’industria. E tuttavia non abbiamo né la sua proprietà né il suo controllo, a causa di un’assurda credenza nel diritto di proprietà.» (op. cit.).

La lotta dei luddisti si inscrive nel movimento più generale della formazione dei sindacati e dei partiti della classe operaia inglese. Allo stesso modo, il «sabotaggio costruttivo» è parte dello sviluppo del movimento operaio, nella prospettiva che esso diventi un grande esercito disciplinato capace di prendere il potere. L’evoluzione verso il sindacalismo d’industria va nella stessa direzione. Le lotte degli operai qualificati e sindacalizzati sono state un momento fondante per il sindacalismo d’industria. In effetti, poiché la resistenza degli operai di mestiere era frazionata in piccoli gruppi di lavoratori relativamente specializzati, certi conflitti si poterono sviluppare solo federando più sindacati di mestiere sotto il medesimo ombrello.

Nello stesso stabilimento o nella stessa città, gli operai sono divisi in numerosi sindacati professionali, e la condizione per il successo delle loro rivendicazioni è che le astensioni dal lavoro non si limitino al loro mestiere o al loro stabilimento. D’altronde, la pratica degli scioperi spontanei di solidarietà, contro il parere dei sindacati, farà sì che questi ultimi evolvano verso il sindacalismo d’industria, per prevenire ed inquadrare questi movimenti.

«Le azioni di solidarietà fra macchinisti, fonditori, lucidatori, pulitori, fabbri, modellatori e calderai erano frequenti già da tempo. Una lega che riuniva i loro leader sindacali nazionali, esisteva già dal 1894. Ma il movimento per la creazione formale di una federazione dotata di consigli locali, avviato nel 1901 e sfociato in una convenzione nel 1906, mirava a promuovere l’arbitraggio dei conflitti e la negoziazione congiunta, a reprimere gli scioperi di solidarietà tanto quanto a raggruppare i sindacati». (David Montgomery, Workers control in America, Cambridge 1979).

Il movimento operaio evolve poco a poco verso un’affermazione sempre più centrale e organizzata della classe. Il sabotaggio costruttivo s’inscrive in questa logica. Lo scopo delle pratiche di rallentamento e di sabotaggio non è quello di rifiutare il lavoro. «La principale preoccupazione dei rivoluzionari è quella che il sabotaggio distrugga il potere dei padroni in maniera tale che i lavoratori acquisiscano un maggior controllo dell’industria.» (Walker C. Smith, op. cit.). Lungi dall’essere contro il lavoro, il sabotaggio partecipa della preparazione del proletariato all’egemonia del lavoro nella società futura.

Prima di passare a un altro periodo storico, notiamo di passaggio che nemmeno Il diritto alla pigrizia di Paul Lafargue è un testo anti-lavoro, ma è un testo che rivendica il «lavoro con moderazione»8.

3. La resistenza al lavoro di fronte all’Organizzazione Scientifica del Lavoro e al fordismo

Segnaliamo qui anche Il lavoro è un crimine di Herman Schuurman, pubblicato negli anni ’20 dal gruppo olandese De Moker Groep. È un testo notevole per l’epoca in cui è stato scritto. Esprime il disgusto per il lavoro senza rivendicare tempo libero. È contro la scuola, lo sport, gli scioperi lunghi, contro il periodo di transizione, per il furto, per il sabotaggio. Ma il De Moker Groep sviluppa queste idee in assenza di un qualsiasi movimento reale che si muova nella stessa direzione all’interno della società olandese dell’epoca. Il suo anti-lavoro non riesce perciò a svincolarsi dai principi consiliaristi, e si riduce ad un’attività pressoché individuale9.

3.1. Dalle origini agli anni del ’68

Notiamo innanzitutto che la resistenza all’introduzione dell’Organizzazione Scientifica del Lavoro (OSL) da parte degli operai di mestiere (che l’OSL voleva eliminare), non ha generato delle lotte di massa. Ma ha spinto, una volta di più, il sindacalismo americano alla transizione verso i sindacati d’industria attraverso le system federations, sorta di alleanze tra sindacati di mestiere formatesi soprattutto nell’ambito delle lotte contro l’introduzione del cronometraggio.

Dal canto suo, la resistenza degli operai non qualificati (quelli che l’OSL mirava a sfruttare) si è sviluppata rapidamente. Bisogna tener presente che il famoso Five Dollars Day proposto da Ford nel 1914, non era affatto un regalo. Ford cercava di ovviare al problema del turnover massivo causato dal lavoro alla catena di montaggio: fra l’ottobre del 1912 e l’ottobre del 1913, aveva dovuto assumere 54.000 operai per coprire 13.000 posti di lavoro. Quel giorno del gennaio 1914 in cui Ford annunciò la giornata di lavoro di 8 ore a 5 dollari, ci furono delle risse fra operai per poter entrare in fabbrica. Ford approfittò di quest’entusiasmo per selezionare i candidati in base alla loro condotta morale, mandando nelle case più di 100 sociologi per individuare gli alcolizzati, o coloro che mantenevano le proprie abitazioni e i propri figli in condizioni più o meno decorose. Successivamente istituì dei corsi di inglese obbligatori per gli immigrati recenti, e organizzò una grande festa per la consegna dei primi diplomi, con una parata di seimila operai a celebrare questo americanisation day.

Malgrado l’entusiasmo degli operai, anche di quelli qualificati, per i salari del fordismo, le costrizioni derivanti dall’OSL e dalla catena di montaggio non impiegarono molto a suscitare forme di lotta specifiche. Il turnover massivo è una di queste, già negli anni che precedono la Prima Guerra mondiale. Negli anni ’20, uno studio sull’OSL (in parte riguardante anche il fordismo) denuncia le pratiche operaie dell’imbroglio e del frenaggio10. L’autore ravvisa la ragione dello sviluppo di queste pratiche nella debole opposizione dei padroni, già soddisfatti per gli importanti incrementi di produttività ottenuti grazie all’introduzione del cronometraggio. Egli si stupisce inoltre del fatto che «a volte, il rallentamento è semplicemente il risultato di una perversione: un’indisponibilità a lavorare con entusiasmo.» (Stanley Matthewson, Restriction of output among unorganized workers, New York 1931, p. 123). Lo stesso autore pensa che la maniera giusta di lottare contro i frenaggi che ha osservato nelle fabbriche taylorizzate, sia il passaggio al fordismo. Qui è il nastro trasportatore a determinare il ritmo del lavoro, che non può più essere rallentato. Ciononostante, cita il caso di una fabbrica fordizzata nella quale le operaie hanno una serie di gesti da compiere che è troppo lunga, cosicché finiscono per trovarsi in ritardo. Periodicamente, allora, gettano un pezzo negli ingranaggi della catena, in modo che si fermi. È qui, a cominciare da quest’epoca, che appare una forma di sabotaggio qualificabile come anti-lavoro.

Il capitale, nell’epoca del suo dominio formale, spossessa l’artigiano dei mezzi di produzione, ma gli lascia la sua qualificazione. Il dominio reale del capitale sul lavoro mette in atto un secondo spossessamento, con cui priva il lavoratore salariato di questa qualificazione. Nel lavoro alla catena, il lavoratore non ha alcun controllo né sui tempi né sui metodi di lavoro (vedremo più avanti che questo «secondo spossessamento» non avviene di colpo, e che il capitale si sforza continuamente di erodere l’autonomia residuale del lavoratore fordizzato o post-fordizzato). Il lavoro diventa un gesto elementare, la cui natura ed il cui ritmo sono determinati dal macchinario. Le abilità del lavoro sono integrate nella macchina, nel capitale fisso. Se il lavoro vivo vuole riaggiustare il suo gesto in termini di quantità, ha solo un’opzione: fermarsi. Se vuole riaggiustarli in termini di qualità, la sola possibilità è quella di sabotare. All’inverso, se l’operaio vuole lavorare – perché ha bisogno di soldi – la sua sola qualificazione consiste nel saper «tenere botta». In queste condizioni, essere contro il capitale, significa necessariamente essere contro il lavoro, i cui attributi si trovano ora incorporati nel macchinario. Non si tratta più di voler lavorare per conto proprio. I lavoratori qualificati del XIX secolo potevano opporre al capitale un progetto di società fondato su ciò che essi stessi erano. Non gli operai dequalificati del XX e del XXI secolo. Questi ultimi non hanno alcun progetto cooperativista o autogestionario11.

Ciò che resta al lavoro vivo – i gesti ripetitivi imposti ai lavoratori, che li esauriscono fisicamente e psichicamente – non è in alcun modo motivo di orgoglio, bensì di disgusto, di rifiuto. Il sabotaggio, che è stato uno dei mezzi di cui il proletariato si è servito nella sua lotta contro il capitale, non cessa di essere utilizzato, ma diventa anti-lavoro. Il sabotaggio alla Pouget/Smith equivaleva alla dimostrazione che i lavoratori avevano in mano il controllo tecnico della produzione, e che perciò mancava loro solo la proprietà collettiva dei mezzi di produzione per realizzare il socialismo. Oggi, il sabotaggio dimostra solamente una cosa, ed è che tutte le vecchie qualifiche dei lavoro vivo gli si oppongono in maniera antagonistica nel capitale fisso. La lotta contro il padrone attraverso il sabotaggio o l’assenteismo è diventata, inscindibilmente, lotta contro il lavoro; ciò che spiega il non-rispetto dello strumento di lavoro e la notevole indisciplina che si manifestarono nell’ambito della crisi del modello fordista degli anni ’60/’70. A differenza dei luddisti, gli operai-massa attaccano le macchine sulle quali lavorano.

3.2. Gli anni intorno al ’68

La crisi sociale degli anni intorno al ’68 è stata provocata dal fatto che il capitale ha cercato di aumentare la produttività principalmente attraverso l’aumento dei ritmi e la degradazione generale delle condizioni di lavoro, anziché attraverso il superamento di una soglia significativa d’automazione o l’abbassamento dei salari, come invece farà più tardi. Negli Stati Uniti, è stato coniato il termine niggermation per designare una certa modalità di aumento della produttività: sostituire i lavoratori bianchi con un numero più esiguo di lavoratori neri, per svolgere la stessa quantità di lavoro.

3.2.1. Sabotaggio

Sabotaggio e assenteismo sono le forme salienti dell’indisciplina generale che regna nelle fabbriche fordiste negli anni intorno al ’68. E non solo in Italia, anche se è qui che i lavoratori si spingono più lontano. Ad esempio, alla Fiat, gli operai abbandonano le loro postazioni e si raggruppano per formare cortei interni che si muovono nella fabbrica, senza preavviso né intervento dei sindacati. Per costringere gli altri a partecipare, quelli che sfilano in corteo utilizzano una corda con cui «irretiscono» coloro che sono rimasti alla catena, trascinandoli così dentro al corteo. Succede anche che forzino le porte fra i reparti e che invadano le officine adiacenti. I capireparto sono del tutto incapaci di far regnare la disciplina. Nei corridoi dei reparti, si svolgono perfino delle gare di corsa con i carrelli elevatori. Dopo il 1973, nelle officine appariranno mense selvagge che offrono bevande e giornali agli operai. Non appena avviene un qualche scontro, pezzi di ricambio lavorati con precisione servono come armi e munizioni. Dal punto di vista padronale, le officine sono diventate ingovernabili.

L’esempio americano dello stabilimento General Motors di Lordstown (1972) è famoso. Costruito nel 1966 in una regione alla periferia di Detroit, viene progettato con lo scopo di eliminare le mansioni faticose. L’azienda paga dei buoni salari, ma impone un ciclo di lavoro di soli 40 secondi, contro quello abituale di circa un minuto. Alla fine del 1971, in seguito a uno sciopero e nel tentativo di recuperare le perdite, la direzione licenzia 800 operai (su 8.000) senza cambiare la velocità della catena di montaggio. È a partire da questo momento che la qualità [del prodotto, ndt] si deteriora. L’aumento delle cadenze, tuttavia, è solo relativo. Martin Glaberman (cfr. “False Promises”: a review, in «Liberation», febbraio 197412) segnala che a Lordstown viene praticato il doubling-up: due operai alla catena svolgono successivamente l’uno il lavoro dell’altro oltre al proprio lavoro, di modo che ciascuno possa fare delle pause supplementari. Come spiega assai chiaramente Ben Hamper (cfr. Rivet Head. Tales from the Assembly Line, Fourth Estate, Londra 1992), il quale lo ha praticato abbondantemente nella fabbrica di Flint, dove ha lavorato per otto anni a partire dal 1978, il doubling-up è concepibile solo con il tacito accordo del caporeparto. E presuppone che i tempi individuali siano sufficientemente ampi. Questo non significa che a Lordstown le cadenze non fossero decisamente aumentate rispetto alla media dell’epoca. Significa semplicemente che esisteva ancora una riserva di produttività. Il sabotaggio volto a colpire la qualità, era visibile nell’ingorgo di vetture da revisionare che si accumulavano in un parcheggio situato al termine della catena di montaggio. A volte si arrivavano a contare fino a duemila vetture, al punto che bisognava fermare la produzione per poter liberare il parcheggio.

Di fronte all’aumento dell’indisciplina, del sabotaggio e dell’assenteismo, i sindacati sono impotenti. Rincorrono il movimento senza riuscire a inquadrarlo. Questo fatto suscita vocazioni tra i gauchistes13, in Francia, negli Stati Uniti, in Italia. Non otterranno successi durevoli, né riusciranno a formare «sindacati per il sabotaggio» o altre organizzazioni permanenti. C’è un elemento essenziale che condanna i gauchistes al fallimento: da un lato, i lavoratori sono (relativamente) ben pagati, dall’altro non hanno nessuna voglia di riformare la fabbrica. Di fronte alla degradazione delle condizioni di lavoro e all’aumento dei ritmi, la loro esasperazione è reale. Ma essa si esprime maggiormente attraverso il sabotaggio e l’assenteismo, che attraverso la partecipazione ai comitati per la salute e la sicurezza. In tal modo, la macchina sindacale finisce per respingere o fagocitare senza difficoltà i candidati «radicali» alla riforma del sindacato.

3.2.2. Assenteismo

L’assenteismo è sempre stato un problema per i capitalisti. Non appena i proletari possono evitare di lavorare, si assentano dal lavoro. A seconda della congiuntura (piena occupazione o disoccupazione), vi riescono più o meno facilmente. Attualmente, si stima che un assenteismo dell’1% abbia un costo dell’1,87% della massa salariale nel settore privato (1% nel settore pubblico). Nelle fabbriche italiane, all’inizio degli anni ’70, l’assenteismo era diventato un grosso problema. A tal punto che il presidente della Repubblica dovette parlarne nel discorso televisivo di fine anno del 1972:

«Gli italiani amano lavorare e trovano nella quotidiana fatica l’ebbrezza di concorrere al progresso del proprio paese. Ed è proprio per rendere omaggio a questa generale volontà di lavoro del popolo italiano, che noi dobbiamo respingere le tentazioni lassiste che si sono manifestate, ad esempio quest’anno, con talune inammissibili punte di astensionismo».

Alla Fiat, il tasso di assenteismo arrivò a toccare il 25%: ogni giorno mancava un quarto del personale. Cosa facevano gli assenti? Lavoravano in nero? In tal caso, si può definire «anti-lavoro» il loro assenteismo? Oppure si riposavano? Indubbiamente facevano un po’ entrambe le cose. Ad ogni modo, la Fiat sottoscrisse un accordo con i sindacati affinché lottassero contro l’assenteismo, in cambio del diritto ad essere informati sui progetti di investimento del gruppo. Ma i sindacati non riuscirono a disciplinare i lavoratori. Negli anni intorno al ‘68, l’assenteismo si contraddistingue per il suo tasso molto elevato, così come per ciò che ho definito assenteismo da sciopero.

Questo tipo di assenteismo appare con gli scioperi americani del 1936-‘37 nel settore dell’automobile. Nelle fabbriche della General Motors, a Flint, le occupazioni si svolgono secondo un modello militare: disciplina, manutenzione delle attrezzature e dei locali, autodifesa, niente alcol, niente donne, niente distrazioni. Un’assemblea generale al giorno. Durante le occupazioni, la mensa di Flint arriva a servire un massimo di duemila pasti. Questo dato può darci un’idea del numero degli occupanti solo se si tengono in considerazione i numerosi scioperanti non-occupanti, che si recavano in fabbrica solo per mangiare. In realtà, gli occupanti alla Flint Fisher Body n. 2, erano 450 il 5 di gennaio, e 17 il 26 gennaio.

«Il problema con cui dovevano confrontarsi gli organizzatori, non era quello di convincere gli occupanti ad andarsene perché era complicato sfamarli tutti o perché c’era bisogno di loro altrove, quanto piuttosto quello di avere abbastanza uomini all’interno, in modo da poter tenere le fabbriche.» (Sidney Fine, Sit Down, Ann Arbor, 1969, p. 168).

I permessi erano limitati, ed un certo numero di occupanti venivano trattenuti contro la loro volontà. Alcuni membri del sindacato United Auto Workers (UAW) che lavoravano in altre imprese, partecipavano all’occupazione. Sul quotidiano locale, vennero pubblicati degli articoli per spiegare alle donne che la presenza dei loro uomini in fabbrica era assolutamente indispensabile.

Il messaggio è chiaro: gli operai sono d’accordo per fare sciopero, ma preferiscono non rimanere dentro la fabbrica. Non importa loro di occuparla o di salvaguardare i macchinari. Non si identificano con il loro lavoro. È una reazione che è stata osservata anche in Francia nel maggio-giugno 1968. Le fabbriche occupate erano quasi deserte. E quando alla fine gli operai dovettero tornarvi, ci furono delle vere e proprie battaglie, talvolta durate giorni, come alla Renault di Flins (1 morto) o alla Peugeot di Sochaux (2 morti)14.

L’occupazione della Fiat di Mirafiori, nel marzo 1973, non contraddice questo punto di vista. Ricapitoliamo rapidamente gli accadimenti. Siamo in un periodo di contrattazione per il rinnovo dei contratti collettivi. Da mesi, i sindacati organizzano scioperi «a scacchiera» nei vari reparti ed altri movimenti minori, sia per fare pressione sulla direzione che per contenere la spinta dei lavoratori. Ma in relazione a quest’ultima il colpo non gli riesce, perché nel corso di un’assemblea operaia senza sindacalisti, il 23 marzo 1973, viene presa la decisione di bloccare l’uscita delle merci al cancello 11 di Mirafiori Nord. Lunedì 26, il piano viene applicato per un’ora soltanto. Il 27 avviene un secondo tentativo. Si è diffusa la voce dell’iniziativa al cancello 11, ed altri operai entrano nel movimento. Mano a mano, quest’ultimo si allarga. Il 29, il blocco dei cancelli di Mirafiori Nord e Sud è totale. Anche le strade della zona vengono bloccate, e gli operai impongono il pagamento di un pedaggio per finanziare la lotta. Trascorso il week-end, il blocco riprende il lunedì 2 aprile, ma i sindacati e la direzione negoziano d’urgenza un accordo che disinnesca il conflitto. Gli operai ottengono un aumento salariale (16.000 lire), ma gli altri punti che li riguardano (orario di lavoro, reintegrazione degli operai licenziati) non vengono menzionati nell’accordo. Anche i sindacati hanno il loro bel contentino, dal momento che gli operai hanno ottenuto il diritto a un periodo di formazione di 150 ore all’anno, e questa formazione viene affidata proprio ai sindacati! (cfr. Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Einaudi, Torino 1989, pp. 433-449).

Per tre giorni, quindi, Mirafiori sarebbe stata «occupata». È questo il termine che viene utilizzato da numerose fonti. Eppure non vi è alcuna pretesa autogestionaria da parte degli operai. La loro attività si concentra sul blocco del flusso delle merci e dei lavoratori (giacché bisogna anche impedire di entrare a coloro che vogliono lavorare) piuttosto che sul progetto di una ripresa della produzione, di cui non si parla nemmeno, così come non ci si interessa della manutenzione dei macchinari. Quest’episodio di lotta alla Fiat è rimarchevole. In particolare perché sembra che gli operai circolassero nelle officine gridando slogan privi di senso. Ammesso che ciò sia vero, si può immaginare un modo più adeguato di gridare il proprio rifiuto di identificarsi come lavoratori? Ecco perché non bisogna lasciarsi fuorviare dalla parola «occupazione». È più corretto parlare di blocco della fabbrica. E in questo caso, gli operai erano senza dubbio in anticipo sui tempi.

Ciò detto, la fabbrica – occupata o bloccata – era comunque in sciopero. C’è stato un assenteismo da sciopero? Non ho trovato molti dati numerici riguardo a questo episodio di Mirafiori. Tutte le fonti che ho utilizzato sottolineano come i gruppi gauchistes siano stati ben poco all’iniziativa del movimento, e i sindacati ancor meno15. Sembra vi sia stato un corteo interno di diecimila lavoratori, che si è poi diviso per poter bloccare (o tentare di bloccare) i cancelli di Mirafiori Nord. In quanti sono rimasti in prossimità di quel primo blocco che – ricordiamolo – è durato soltanto un’ora? Impossibile saperlo. In ogni caso, a quell’epoca, lo stabilimento contava 60 mila dipendenti. Dov’erano durante il blocco?

3.2.3. Conclusione provvisoria

L’indisciplina che ha regnato nelle fabbriche fordiste negli anni intorno al ’68 è difficilmente immaginabile al giorno d’oggi. Né i sindacati né i capireparto poterono domarla. Il capitale ci è riuscito soltanto quando ha attuato quegli investimenti e quelle delocalizzazioni, che aveva evitato fino ad allora in ragione del loro costo. Ma le fabbriche erano diventate ingovernabili, e le concessioni alquanto onerose che erano state accordate agli operai non erano bastate a farli rientrare nei ranghi. Alla Fiat, a metà degli anni ’70, i padroni avevano fatto le seguenti concessioni:

Nel caso della Renault, nel medesimo periodo, le concessioni erano state le seguenti:

Tutto questo finirà con le delocalizzazioni. Ovunque – combinate con la disoccupazione, in rapida crescita a partire dalla fine degli anni ’70 – esse costringeranno gli operai a sottomettersi.

I metodi usati dai proletari di ogni epoca per resistere alla pressione padronale in fabbrica sono passati dall’essere pro-lavoro (Pouget), nel caso dei lavoratori qualificati, all’essere anti-lavoro, nel caso degli operai dequalificati. Il luddismo è stato una delle basi per la formazione del sindacalismo di mestiere. Le lotte degli operai qualificati contro l’introduzione dell’OSL hanno contribuito alla trasformazione del sindacalismo di mestiere in sindacalismo d’industria. Le lotte degli operai dequalificati degli anni ’60, invece, non hanno prodotto alcuna nuova forma di organizzazione. Tuttavia hanno modificato il contenuto del sabotaggio, sopprimendo qualsiasi forma di orgoglio operaio, praticando un menefreghismo sistematico, non rispettando né lo strumento di lavoro, né il delegato sindacale, né la gerarchia di fabbrica. Il sabotaggio, in particolare, si è trasformato nella stessa misura in cui il lavoro veniva privato delle sue qualificazioni e perdeva il controllo dei suoi ritmi e dei suoi gesti. Da pratica ragionata di lavoratori generalmente qualificati, sindacalmente inquadrati, in appoggio a rivendicazioni principalmente salariali, è diventato una protesta rabbiosa, distruttrice, condotta da operai non qualificati che protestano soprattutto contro le loro condizioni di lavoro. Il sabotaggio degli operai-massa si inscrive in un quadro più generale di indisciplina, che illustra l’assenza di identificazione degli operai rispetto al proprio lavoro. I sindacati non riescono ad inquadrare questa indisciplina, e l’assenteismo da sciopero lo dimostra chiaramente. Abbiamo definito queste pratiche come «anti-lavoro», sia per rendere conto del disgusto nei confronti di un lavoro degradante, che non richiede alcuna competenza, sia per sottolineare che sulle basi di questo movimento di rabbia e d’indisciplina non si è costituita alcuna organizzazione operaia. L’impossibilità, per le vecchie organizzazioni del movimento operaio, di farsi carico delle pratiche anti-lavoro, non ha portato alla costruzione di nuove organizzazioni di massa, malgrado gli sforzi dell’estrema sinistra in tal senso. Il termine «anti-lavoro» esprime anche il fatto che il comunismo non può più essere inteso come una società di lavoratori associati in una «economia liberata».

4. Anti-lavoro nel post-fordismo?

Ci si può chiedere se l’indisciplina degli anni ’60 e ’70 sia sopravvissuta alla grande ondata di ristrutturazione che ne è seguita. In un testo del 201016, avevo risposto senza mezzi termini che dopo un periodo di riflusso l’anti-lavoro era tornato alla ribalta. Forse è necessario mitigare questa valutazione. Dopo una fase di arretramento, i padroni hanno risposto all’indisciplina del proletariato [degli anni intorno al ‘68, ndt] in diverse maniere: ristrutturazione del processo di lavoro fordista, automazione parziale, delocalizzazione del fordismo tradizionale verso paesi con manodopera a basso costo. La svolta avviene a partire dalla metà degli anni ’70.

4.1. L’anti-lavoro contro il fordismo delocalizzato

Le delocalizzazioni sono state uno degli strumenti con cui il capitale ha sottomesso la manodopera indisciplinata degli anni ’60 e ’70. Esse hanno avuto come destinazione principale l’Asia. Il capitale vi ha trovato una forza-lavoro alla quale ha potuto imporre i metodi di lavoro che gli operai avevano rifiutato in Occidente. Ma, nel giro di qualche anno, questi nuovi operai hanno reagito in maniera abbastanza simile ai loro predecessori. Salvo diversa indicazione, gli esempi che seguono si riferiscono alla Cina.

4.1.1. Violenza e rabbia distruttiva: alcuni esempi

Va notato che tutti questi movimenti si sviluppano all’esterno delle officine. Quello che segue è un esempio contrario, ma si svolge senza rabbia né distruzione. Si tratta di sabotaggio, nel senso di un rallentamento concertato?

4.1.2. Turnover

Il turnover è in forte aumento (dal 10 al 25%).

4.1.3. Uccisione di padroni (Thongua Steel, 2009)

Nel corso di una serie di manifestazioni contro l’ingresso di un gruppo privato nel capitale di questa acciaieria, un gruppo di lavoratori se la prende con il maxi-dirigente e lo bastona a morte. La privatizzazione di Thongua viene annullata.

4.1.4. Sleep-in (Jalon Electronics – Giugno 2010)

Ad un aumento dei salari, il 1° giugno, segue un’accelerazione dei ritmi il 3 giugno, sebbene fossero già in precedenza diventati intollerabili. La reazione dei lavoratori, esausti, è quella mettersi a dormire, collettivamente, sulle loro postazioni.

4.1.5. Indisciplina

Tutto ciò fa un po’ pensare all’Italia degli anni ’70. Il trasferimento in Cina delle condizioni di lavoro prevalenti in Occidente negli anni ’70, suscita reazioni analoghe a quelle degli operai-massa occidentali. Ma siamo comunque abbastanza lontani da un’atmosfera «all’italiana». Le lotte che abbiamo citato rimangono spesso isolate, non attaccano direttamente il sistema produttivo, e in generale non si svolgono nelle officine. Negli ultimi anni, queste lotte si sono moltiplicate, ma restano per lo più al livello della rivendicazione e della contrattazione. Questo fatto è riconducibile alla recessione, che sta provocando la chiusura di molte fabbriche e porta con sé lo spettro della disoccupazione. Tra le richieste dei lavoratori, è inoltre necessario menzionare anche quella relativa alla rappresentanza sindacale (con o senza l’ACFTU, la centrale sindacale controllata dallo Stato). Ciò non va nella direzione dell’anti-lavoro. Un indice del grado di accettazione o di disperazione tra i proletari cinesi, è il moltiplicarsi dei suicidi o delle minacce di suicidio volte a ottenere soddisfazione, in particolare sul pagamento dei salari arretrati. Nel caso delle fabbriche cinesi, si può dire che l’anti-lavoro specifico degli operai-massa del sistema fordista è presente, ma resta limitato e frammentato.

4.1.6. Nessuna autogestione

Nelle fabbriche abbandonate dai padroni non è stata messa in atto alcuna autogestione, nonostante una composizione organica del capitale spesso debole (tessile, giocattoli etc.).

4.1.7. Il caso del Bangladesh

Nel 2010 avevo citato il caso delle rivolte operaie in Bangladesh come esempio di pratiche anti-lavoro. In effetti, in un paese dove la disoccupazione è considerevole, si vedono operai che manifestano contro i loro padroni (il più delle volte per questioni legate al salario) e che bruciano o distruggono le fabbriche. Concludevo sottolineando «il carattere fortemente paradossale di questi movimenti, che difendono la condizione salariata distruggendo i mezzi di produzione». Questo punto di vista è stato criticato da un certo Red Marriot, in un commento sul sito Libcom. Secondo il suo modo di vedere, bisognerebbe riservare il termine «anti-lavoro» alle rivolte degli anni ’60 e ’70. Inoltre, il contenuto rivendicativo delle lotte delle operaie di Dacca vieterebbe di parlare di anti-lavoro.

Notiamo in primo luogo che i metodi di lotta nel settore tessile, in Bangladesh, non sono cambiati. Eccone alcuni esempi:

In tutte queste lotte, è sorprendente constatare la reattività dei lavoratori delle fabbriche non coinvolte nel conflitto iniziale. Questa solidarietà pressoché istantanea è un sintomo, fra gli altri, della grande indisciplina che caratterizza l’insieme della classe operaia del Bangladesh. D’altra parte, è evidente l’importanza della questione salariale. Gli operai rivendicano costantemente degli aumenti salariali (e persino la riapertura delle fabbriche). Ma ciò non impedisce che i loro metodi di lotta includano la distruzione dei mezzi di produzione, e questo la dice lunga su cosa pensino del loro lavoro. Non hanno «rispetto per lo strumento di lavoro», né esprimono un discorso politico-rivoluzionario. Le lotte restano sul filo delle loro preoccupazioni immediate. Ciononostante, i loro metodi, il loro contenuto concreto, parlano la lingua dell’anti-lavoro.

Red Marriott si ferma al fatto che i lavoratori rivendicano aumenti salariali, verosimilmente per squalificarne le lotte come non-rivoluzionarie. Su quest’ultimo aspetto non ha torto, ma il punto è un altro. L’anti-lavoro non è la rivoluzione, né il suo cominciamento né il suo modello: è una forma di lotta che ci dice che la rivoluzione non avrà per contenuto l’accesso della classe del lavoro a una posizione egemonica in sostituzione della borghesia. E ciò si segnala nell’ambito delle attuali forme di lotta dei lavoratori non qualificati. Le pratiche anti-lavoro si inscrivono nel corso quotidiano della lotta di classe. In quanto tali, non hanno alcun potenziale rivoluzionario. Non sono altro che un’indicazione sul contenuto della contraddizione proletariato/capitale. In un momento insurrezionale intenso e relativamente generalizzato, il sabotaggio della produzione, l’assenteismo (incluso quello da sciopero), l’indisciplina nei confronti di padroni e sindacati, saranno ancora all’ordine del giorno? È più che discutibile. Una delle ragioni per cui, secondo il mio interlocutore, non si possono raggruppare sotto la stessa categoria la rivolta degli operai-massa degli anni ’60-’70 e le lotte degli operai del Bangladesh, è che gli operai-massa avevano i salari operai più elevati dell’epoca, soprattutto nel settore dell’automobile, mentre i salari del Bangladesh sarebbero i più bassi del mondo (cosa indubbiamente vera). Il confronto però è sbilenco, poiché in Bangladesh gli impieghi nel settore tessile sono ambiti, ciò che significa che – in termini relativi – i salari non sono poi così malvagi se paragonati ad altre possibili fonti di reddito. D’altra parte, Red Marriott mi rimprovera di non tenere conto delle differenze esistenti al livello della società nel suo insieme (industriale sviluppata o sottosviluppata) e del contesto (sottoccupazione di massa, povertà etc.). Ma non è quello che ci interessa qui! Quando il capitale trasferisce in Asia i metodi del taylorismo e del fordismo, lo fa proprio per sfruttare questa differenza fra le condizioni sociali di partenza e quelle di arrivo. In altri termini, si sposta là dove può trovare una manodopera abbondante e a buon mercato. Ciò che ci interessa qui, sono unicamente le modalità di sfruttamento del lavoro proposte ed imposte a questa nuova classe operaia. Quest’ultima ha bisogno di lavorare, ed accetta le condizioni imposte dal capitale. In tal modo, essa è presa in una forma della contraddizione proletariato/capitale che la porta necessariamente a riscoprire i metodi di lotta di coloro che l’hanno preceduta in Occidente. Non tengo conto delle differenze sociali fra l’Italia del 1970 ed il Bangladesh del 2010, perché voglio seguire gli effetti del taylorismo/fordismo nella sua traslazione geografica. Ma se si volessero considerare nel loro insieme le società in cui il fordismo tradizionale si è installato dopo il 1980, in particolare nella prospettiva di un futuro processo rivoluzionario, allora ci sarebbe molto da dire. Ho provato a farlo, in maniera semplificata, nel mio studio sulla Cina17.

4.1.8. Trasporti pubblici

Negli ultimi anni, abbiamo assistito a diverse rivolte di massa contro le pessime condizioni imposte ai proletari sul fronte dei trasporti pubblici che collegano il luogo di residenza al luogo di lavoro.

Eccone alcuni esempi:

Nel mio testo del 2010, affermavo che queste rivolte sono rivolte anti-lavoro. In effetti, il tempo di trasporto è tempo di lavoro non pagato. D’altra parte, i trasporti pubblici sono il collegamento fra le periferie e le fabbriche o gli uffici, e non si vede per quale motivo dovrebbero essere risparmiati dalla rabbia dei proletari, quando i quartieri e i luoghi di lavoro non lo sono. Infine, doversi accalcare dentro vetture e vagoni rappresenta per i proletari un supplemento quotidiano di umiliazione. Questi erano i miei argomenti a favore dell’ipotesi che le rivolte contro i trasporti pubblici siano una forma di anti-lavoro. Sarebbe stato invece più logico ricollegarle alle pratiche anti-proletariato di cui ho trattato in altri punti di quel testo, visto e considerato che queste rivolte avvengono fuori dalla fabbrica. Ma come avviene per l’anti-lavoro propriamente detto, i proletari distruggono qui un elemento necessario alla riproduzione del proletariato stesso. Nelle stazioni di periferia, essi esigono trasporti che funzionino in maniera adeguata, ma distruggono i locali e i treni. È il medesimo paradosso che abbiamo rilevato, ad esempio, nel caso del Bangladesh, ma che qui riguarda un momento extra-lavorativo della riproduzione del proletariato. Ricusando la spola tra lavoro e domicilio, il proletariato attacca ciò di cui ha bisogno per vivere come tale. Al di là di un’esasperazione del tutto comprensibile, bisogna vedere in queste pratiche – che non possono che aggravare la situazione dei proletari – lo stesso indicatore che vediamo all’opera nell’anti-lavoro propriamente detto, quello della possibilità e della necessità dell’auto-negazione del proletariato come superamento della contraddizione sociale del capitalismo. Così come l’anti-lavoro annuncia che il proletariato non farà la rivoluzione operaia nei termini in cui veniva delineata nel programma proletario, a loro volta le pratiche anti-proletariato annunciano che questa rivoluzione non si compirà come affermazione della cultura proletaria, ma come sua distruzione. Per cultura proletaria, intendo tutte le forme di vita e di pensiero che accompagnano la riproduzione del proletariato nella società capitalistica. Le rivolte del 2005 nelle banlieues francesi sono un esempio di pratica anti-proletariato, così come lo sono la distruzione dei quartieri proletari ad opera dei proletari che li abitano, o ancora le rivolte dei ghetti.

4.2. L’anti-lavoro nei paesi industrializzati

Nei paesi industrializzati, il disciplinamento del proletariato è avvenuto attraverso la disoccupazione e la trasformazione in senso post-fordista del processo di lavoro immediato. Per ciò che concerne quest’ultima, il modello produttivo Toyota è stato considerato un modello perfetto, che coniuga una spietata ricerca degli incrementi di produttività con la cooptazione dei lavoratori nel continuo miglioramento dei metodi di produzione (circoli di qualità). In realtà, per il padrone è una maniera di appropriarsi gli ultimi trucchi individuali che gli operai-massa utilizzavano per recuperare qualche secondo su un ciclo di lavoro già molto breve18. Siamo di fronte a un nuovo livello di spossessamento dei lavoratori. Pur essendo ben poco qualificati, essi potevano escogitare, nel fordismo classico, delle astuzie per poter guadagnare tempo e rifiatare. L’inserimento degli operai all’interno di équipe adibite a una mansione collettiva più ampia rispetto a quella del vecchio operaio-massa, la polivalenza di ciascun operaio dell’équipe che ciò presuppone (poco o nulla a che vedere con la cosiddetta ricomposizione del lavoro), la costrizione al continuo miglioramento del processo di lavoro, la stretta sorveglianza reciproca fra gli operai sommata a quella del caposquadra etc., fanno sì che quelle astuzie – non appena individuate – vengano subito integrate nella definizione della mansione, e che quei pochi secondi vengano recuperati dal padrone. Tommaso Pardi descrive inoltre l’uso del management by stress, che consiste nell’impartire ordini contraddittori e lasciare che il lavoratore se la sbrogli. Ad esempio, se c’è un problema sulla sua postazione, il lavoratore può fare finta di nulla e lasciar passare un pezzo fatto male. Ciò è contrario all’imperativo della qualità totale, e il guasto verrà tracciato e ricondotto alla sua postazione; cosicché il lavoratore verrà sanzionato. Certo, egli può anche tirare una leva e fermare la catena per chiedere che il problema venga risolto. Ma la cosa è malvista. Il tasso di utilizzo della capacità produttiva della catena è esposto e aggiornato in permanenza, e tutti possono vederlo. Non appena scende al di sotto del 95 o del 90%, ognuno sa che ci saranno delle ore supplementari obbligatorie. Quindi fermare la catena non è un buon modo per farsi degli amici. Conclusione: per non avere problemi, bisogna sbrigarsela da soli…

In sostanza, il post-fordismo è un fordismo che corregge le proprie imperfezioni per lottare contro le ultime tracce di quella flânerie che aveva provocato l’iniziativa di Taylor. Non conosco esempi di lotte di fabbrica che si oppongano specificamente a queste forme di subordinazione. Probabilmente ce ne sono, ma senza dubbio rimangono assai limitate, dal momento che i progressi dell’informatica rafforzano senza tregua la sorveglianza sui lavoratori. Uno studio degli Angry Workers of the World sugli stabilimenti di Amazon in Polonia e Germania19, racconta di alcune lotte per il rinnovo dei contratti a tempo determinato. I lavoratori avrebbero rallentato per due volte il lavoro, nonostante lo stretto controllo digitale della loro attività. Ciò resta un fatto assai circoscritto. Il problema di aziende come Amazon è quello di aumentare costantemente la velocità delle operazioni. Secondo gli Angry Workers of the World, i robot sono ancora troppo costosi. Ciò che ci pone in una situazione analoga a quella del fordismo della fine degli anni ’60: l’investimento in capitale fisso è troppo oneroso, perciò gli incrementi di produttività devono essere ottenuti tramite l’aumento dei ritmi – con questa importante differenza: che la disoccupazione oggi è massiva, e allontana la soglia oltre la quale la situazione esploderà. Per il momento, il modello tiene grazie al vasto esercito di riserva disponibile. In occasione dei picchi di attività, gli stabilimenti di Amazon in Polonia e Germania vanno a cercare nuovi lavoratori fino in Spagna e in Portogallo.

5. Conclusione

Più in alto nel testo, ho scritto che è il caso di moderare le mie proposizioni del 2010. Mi sembra necessario sottolineare almeno tre elementi.

Da un lato, l’anti-lavoro dev’essere distinto dall’ordinario rifiuto del lavoro. Quest’ultimo si inscrive nella resistenza quotidiana dei proletari di tutte le epoche; fa parte dei loro mezzi di sopravvivenza di fronte alla noia e allo sfinimento del lavoro sotto padrone. Il proletario preferisce lavorare meno, o addirittura non lavorare, ogni volta che gli sia possibile. È l’effetto dell’esteriorità del lavoro salariato rispetto al lavoratore. Oggi, il rifiuto del lavoro è praticato a livelli di massa, e nei centri dell’accumulazione il welfare gli viene incontro. Tenuti in debito conto il carattere massivo della disoccupazione e le condizioni molto dure del lavoro post-fordista, il turn-over dei proletari fra disoccupazione (indennizzata, anche se malamente) e lavoro (insostenibile a lungo termine) è un fatto positivo per il capitale. D’altronde, anche i capitalisti più conservatori cominciano a riflettere sull’introduzione di un reddito universale. Senza dubbio, gli economisti si domandano a quale livello di miseria bisognerà allineare questo reddito universale, affinché la pressione della disoccupazione continui a spingere i proletari nelle fauci di Amazon o di altri sfruttatori post-fordisti. Nel contempo, non voler lavorare e preferire – ove possibile – la vita ai margini, è un comportamento normale per i proletari, ma che non esprime alcuna particolare critica rispetto alla società attuale.

D’altra parte, la messa in prospettiva storica di alcune pratiche di lotta in fabbrica, come il sabotaggio, l’assenteismo e l’indisciplina in generale, rivela una trasformazione del contenuto di queste pratiche da pro-lavoro in anti-lavoro. È necessario periodizzare la storia del sabotaggio, che non ha sempre avuto una valenza anti-lavoro. Pervenuto a un certo grado di dequalificazione, il lavoro giunge a contrapporsi a se stesso nella misura in cui si oppone al capitale. Questo anche nelle sue lotte quotidiane. Il sabotaggio diventa irrispettoso dei mezzi di produzione, e distrugge ciò che consentiva ai sabotatori di lavorare. Pouget non arriva a tanto: egli era immerso in una cultura operaia che l’anti-lavoro odierno, allargandosi in anti-proletariato, rigetta alla stessa stregua del lavoro. Le vecchie pratiche, in apparenza molto radicali, vanno riconsiderate nell’ottica del superamento del movimento operaio tradizionale. Pouget e Lafargue costituiscono un esempio di autori ancora frequentemente citati da commentatori che, per un altro verso, rivendicano l’auto-negazione del proletariato e il superamento del lavoro. Ciò non è coerente.

Infine, l’anti-lavoro è davvero tornato alla ribalta negli ultimi anni? Le considerazioni svolte fin qui mostrano che, con poche eccezioni, le lotte della fase più recente che potrebbero essere qualificate come «anti-lavoro», si svolgono in realtà fuori dalla fabbrica propriamente detta. Nel caso del fordismo tradizionale rilocalizzato nei paesi emergenti o in via di sviluppo, quando le lotte attaccano i mezzi di lavoro, lo fanno dall’esterno, come accade in Bangladesh. In Cina, le distruzioni colpiscono più spesso le mense e i dormitori che le officine. Occorre quindi riconoscere che le lotte anti-lavoro non hanno investito i reparti con un’ondata comparabile a quella che colpì l’Occidente negli anni ’60-’70. Nelle fabbriche dei paesi industrializzati regna la calma. Il rafforzato controllo sui lavoratori attraverso la digitalizzazione, e il peso della disoccupazione, hanno finora impedito che il lavoro venga rimesso in causa. In questa situazione, si può scommettere che un movimento proletario capace di rimettere seriamente in discussione le condizioni attuali della riproduzione del rapporto proletariato/capitale, sarebbe allo stesso tempo un movimento anti-lavoro e anti-disoccupazione. Per attaccare il lavoro a cui è costretto, il proletariato dovrà allo stesso tempo ricusare la disoccupazione in quanto ostacolo insormontabile. E soprattutto, questo movimento dovrà inglobare nel suo maelström il cuore dello sfruttamento capitalistico, vale a dire le fabbriche e gli uffici dei paesi più sviluppati. L’ingresso dei lavoratori produttivi in una fase di lotte generalizzate, perfino insurrezionali, mostrerà con ogni probabilità che l’anti-lavoro degli operai-massa degli anni intorno al ‘68 è stato solamente un primo abbozzo.

=====================

1 Una prima traduzione di questo testo, a cura di Franco Senia, era apparsa sul suo blog personale (http://francosenia.blogspot.com/) nel febbraio 2018; la presente traduzione è una rielaborazione ulteriore di quella, ma se ne discosta in più punti. [ndt]

2 Cfr. Bruno Astarian, Falsa attualità del luddismo. Note di lettura su Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra di E.P. Thompson, marzo 2015. Disponibile qui: http://illatocattivo.blogspot.fr/2015/03/falsa-attualita- del-luddismo.html.

3 Confédération Général du Travail (Confederazione Generale del Lavoro): centrale sindacale francese fondata nel 1895, inizialmente dominata dagli anarco-sindacalisti. [ndt]

4 Il termine OS (ouvrier spécialisé), che ricorre a più riprese nel testo originale per designare l’operaio non qualificato della linea di produzione taylorista-fordista, è stato tradotto qui con le espressioni «operaio-massa» o «operaio dequalificato». [ndt]

5 Disponibile qui: https://maldoror.noblogs.org/files/2014/11/Pouget-IlSabotaggio.pdf.

6 Disponibile qui: https://www.iww.org/history/library/WCSmith/sabotage.

7 Per programma proletario o programmatismo, si intende la prospettiva rivoluzionaria legata al movimento operaio tradizionale in tutto lo spettro delle sue varianti, dalla socialdemocrazia all’anarchismo. Esso concepiva (teoricamente e praticamente) il superamento dell’attuale ordinamento sociale come instaurazione di un periodo o di una società di transizione, ovvero di una fase intermedia tra capitalismo e comunismo (generalizzazione della condizione salariata, sviluppo delle forze produttive etc.), rinviando la realizzazione di quest’ultimo ad un futuro più o meno lontano. [ndt]

8 Cfr. Bruno Astarian, Étrange popularité du «Droit à la Paresse» de Paul Lafargue, giugno 2015. Disponibile qui: http://www.hicsalta-communisation.com/textes/etrange-popularite-du-droit-a-la-paresse-de-p-lafargue.

9 Cfr. Herman J. Schuurman, Il lavoro è un crimine, Ed. Il Cane Arrabbiato, Amsterdam 2007. Disponibile qui: http://mondosenzagalere.blogspot.com/2009/03/il-lavoro-e-un-crimine.html.

10 Strategia messa in atto dagli operai, volta a impedire l’aumento dei ritmi di lavoro. [ndt]

11 Cfr. Bruno Astarian, Elementi sulla periodizzazione del modo di produzione capitalistico, settembre 2012. Disponibile qui: http://illatocattivo.blogspot.com/. [ndt]

12 Disponibile qui: https://www.marxists.org/archive/glaberman/1974/02/falsepromises.htm.

13 Ci si riferisce qui ai militanti dei gruppi della sinistra extraparlamentare che entravano in fabbrica come operai, nella prospettiva di un “intervento” politico e/o sindacale «radicale». [ndt]

14 Cfr. Bruno Astarian, Les grèves en France en mai-juin 1968, Échanges et Mouvement 2003. Disponibile qui: http://www.hicsalta-communisation.com/histoire/les-greves-en-france-en-mai-juin-1968.

15 Fu proprio in seguito a questo episodio che i gruppi della sinistra extraparlamentare italiana entrarono in crisi. Potere Operaio si sciolse di lì a pochi mesi (Convegno di Rosolina, maggio 1973); Lotta Continua entrò in una fase di travaglio che condusse in breve tempo alla fine dell’organizzazione (Congresso di Rimini, 1976); e le altre organizzazioni presero una deriva decisamente para-istituzionale ed elettoralistica. [ndt]

16 Cfr. Bruno Astarian, Activité de crise et communisation, giugno 2010. Disponibile qui: http://www.hicsalta- communisation.com/textes/activite-de-crise-et-communisation-5.

17 Cfr. Bruno Astarian, Luttes de classes dans la Chine des reformes (1978-2009), Acratie 2009. Disponibile qui: http://www.hicsalta-communisation.com/textes/luttes-de-classes-en-chine-dans-lere-des-reformes-1978-2009.

18 Cfr. Tommaso Pardi, Redifining the Toyota Production System. The European side of the system, Gerpisa 2007.

19 Cfr. Angry Workers of the World, Welcome to the jungle – Working and struggling in Amazon warehouses, dicembre 2015. Disponibile qui: https://angryworkersworld.wordpress.com/2015/12/20/welcome-to-the-jungle-working-and- struggling-in-amazon-warehouses.