[Presentiamo qui, in traduzione italiana, il capitolo III del libro di Bruno Astarian, L’abolition de la valeur, Éditions Entremonde, Ginevra 2017]

Dopo avere esaminato il pensiero di Marx in merito al valore e alla sua abolizione, e dopo avere visto quali problemi esso pone, possiamo ora presentare il nostro modo di affrontare la questione. Anch’esso è storicamente determinato. Poiché cerchiamo di comprendere il modo di produzione capitalistico dal punto di vista del suo superamento, il nostro sguardo sulla società capitalistica è determinato dalle forme attuali della lotta delle classi, allo stesso modo che per Marx in relazione alla sua epoca. Marx metteva in primo piano le lotte del proletariato per creare cooperative1. Da parte nostra, consideriamo che le lotte più significative della nostra epoca siano le rivolte anti-lavoro degli operai presi nel contesto della crisi del fordismo. Queste lotte sono apparse negli anni 1960-‘70 nei paesi industrializzati dell’Occidente2. Le ritroviamo oggi in Oriente, dove una parte significativa del lavoro industriale fordizzato è stata trasferita. In queste rivolte, il proletariato affronta il capitale rigettando la propria identità di classe del lavoro. Esso rivendica poco o nulla, non rispetta gli strumenti di lavoro e non avanza delle proposte di presa in carico dell’economia. Quando, anziché rivendicare dei miglioramenti, distrugge in modo apparentemente cieco i mezzi stessi della sua sopravvivenza all’interno del capitale (fabbriche, infrastrutture dei quartieri in cui vive, scuole, mezzi di trasporto etc.), esso esprime il rifiuto di ciò che lo assegna alla condizione proletaria. Ciò non esclude delle lotte più tradizionali (lotte rivendicative o tentativi di autogestione, ad esempio). Ma nel movimento perpetuo e cangiante della lotta di classe, occorre portare un’attenzione particolare alle lotte anti-lavoro in quanto sono la manifestazione delle contraddizioni più avanzate del modo di produzione capitalistico3. Le lotte della fase attuale (a partire dal post-‘68) annunciano che il superamento del capitale non si realizzerà attraverso l’affermazione della classe del lavoro come nuova classe dirigente, ma con l’abolizione simultanea delle due classi e la completa trasformazione dei rapporti tra gli uomini e tra questi e la natura. Questa prospettiva permette e impone di riconsiderare in profondità la problematica del valore e della sua abolizione. È questo l’oggetto del presente saggio.

1. Punto di partenza: il capitale poggiante sulle sue proprie basi

Abbiamo visto4 che Marx, per comprendere cosa sia il valore, ha scelto di partire dalla merce, considerata come la «forma elementare» della ricchezza. In altre parole, l’analisi marxiana prende avvio dal mercato. E abbiamo posto la questione se non convenga invece partire dalla produzione. Ancora: occorre sapere di quale tipo di sistema produttivo ci stiamo occupando. Abbiamo osservato come Marx, senza dirlo esplicitamente, collochi la sua analisi del valore all’interno di un quadro che ricorda molto da vicino la produzione mercantile semplice5. Da parte nostra, poiché l’anatomia dell’uomo è la chiave per comprendere l’anatomia della scimmia, situeremo le nostre riflessioni nel contesto della società capitalistica pienamente sviluppata. Le forme del valore raggiungono infatti la loro piena estensione nella società capitalistica moderna. Inoltre, siccome oggi conosciamo tutte le difficoltà che si incontrano quando si cerca di definire il valore – e in particolare il lavoro astratto – a partire dal mercato, il nostro punto di partenza sarà la produzione capitalistica poggiante sulle sue proprie basi. Come si presenta quest’ultima?

1.1. Produzione per la produzione

Ad uno sguardo superficiale, la società capitalistica appare come un formicaio che lavora senza tregua alla produzione di beni che hanno per i consumatori un’utilità relativa. Il lavoro sempiterno dei produttori non li arricchisce, ma permette loro soltanto di riprodursi in quanto tali, senza migliorare la propria condizione. E tutta questa produzione ha per l’ambiente le conseguenze dannose che ben conosciamo. È inutile insistere sull’assurdità, sull’apparente irrazionalità del modo di produzione capitalistico. Si sente spesso affermare che la peculiarità del modo di produzione capitalistico sia la «produzione per la produzione». È vero, in prima analisi. Occorre certamente che le merci prodotte trovino un loro utilizzo, che sia nella produzione oppure nel consumo finale. Ma è evidente che se la soddisfazione dei bisogni delle persone fosse il fine della produzione, si potrebbe pervenire a questo risultato in modo molto più semplice, meno faticoso e meno distruttivo. Si deve dunque concludere che il fine della produzione capitalistica risiede altrove.

In effetti, ciò che ci appare come produzione per la produzione, deve essere compreso come ricerca del profitto. Nel modo di produzione capitalistico, nulla giustifica la produzione di un oggetto qualsivoglia se non la sua redditività in termini di profitto. E questo profitto, così importante e così bramato dal capitalista, non è tanto destinato al suo personale godimento, quanto ad essere reinvestito in una nuova produzione, che a sua volta dovrà generare profitto etc. Se si considera la ricchezza prodotta dalle loro imprese, i capitalisti non sono affatto dei gaudenti, come erano ad esempio gli aristocratici dell’ancien régime. Le comodità e i fasti della vita dei capitalisti sono soltanto un aspetto secondario della loro vera ricchezza, e tanto meno sono lo scopo dei loro sforzi. La loro vera ricchezza è il capitale che possiedono, che devono continuamente accrescere mettendo al lavoro la propria manodopera. Per ciò che concerne quest’ultima, la specificità del modo di produzione capitalistico è che il lavoro del proletariato ha come risultato non solo la produzione di un certo volume di merci, ma anche la riproduzione del lavoratore nella medesima condizione di indigenza che l’aveva inizialmente costretto a lavorare. Il salario permette al lavoratore solamente di riprodursi come lavoratore deprivato di ogni altra cosa. Di conseguenza, né il consumo dei padroni, che devono reinvestire quanto più possibile i loro profitti, né quello dei lavoratori, possono essere considerati il fine della produzione capitalistica. L’idea opposta, cioè che il consumo sia lo scopo della produzione, è naturalmente molto diffusa tra gli economisti. Ad ogni modo, e per concludere, che si consideri l’una o l’altra classe, il lavoro dei produttori appare come un’attività che genera una ricchezza immensa, la quale serve poco – e male – un numero limitato di persone. Chiamiamo tale ricchezza valore. È questo l’oggetto della nostra indagine nel presente capitolo.

1.2. Un modello a due classi

Come si ricorderà, nel primo capitolo del Capitale, Marx colloca la sua analisi del valore in una società indeterminata, dove i produttori lavorano e scambiano i loro prodotti. Per parte nostra, prenderemo le mosse da una società ben definita, la società capitalistica pienamente sviluppata. Troviamo, in questa società, numerose e differenti categorie sociali, mestieri più o meno ben pagati, lavoratori attivi e disoccupati, quadri e tecnici etc. Ma per la nostra analisi, sarà sufficiente considerare che la società capitalistica si compone di due classi: i capitalisti, che possiedono i mezzi di produzione e organizzano il lavoro che valorizza il loro capitale, e i proletari, che lavorano costretti dall’indigenza in cui si trovano in ragione del monopolio capitalistico dei mezzi di lavoro. È questa la logica del modo di produzione capitalistico: i proletari lavorano senza tregua per ricevere soltanto quel minimo che permette loro di continuare a lavorare, mentre i capitalisti, ansiosi di sopravvivere nella giungla della concorrenza, accumulano sotto forma di capitale la ricchezza che traggono dallo sfruttamento dei lavoratori, senza poterne veramente godere, poiché è necessario che questa ricchezza sia incessantemente reinvestita nella produzione di nuova ricchezza.

Questa visione semplificata delle classi del modo di produzione capitalistico, aggira evidentemente la questione delle classi medie6, le quali rappresentano un sostegno significativo ai consumi in quei paesi – in particolare quelli occidentali – dove hanno conosciuto un certo sviluppo. È impossibile articolare qui un’analisi approfondita capace di giustificare questa semplificazione, già rivendicata, seppure in un altro contesto storico, da Gorter nella sua polemica contro Lenin7. Diciamo semplicemente che l’importanza e la prosperità delle classi medie costituisce un’eccezione storica (i «Trenta Gloriosi») e geografica (l’Occidente e il Giappone). La limitatezza numerica delle classi medie nei paesi emergenti è viceversa la regola. Essa contribuisce a spiegare il vigore dell’accumulazione del capitale in queste zone. Aggiungiamo che il fatto di trascurare in prima analisi le classi medie, è anche giustificato dal ruolo decisamente subalterno che queste ultime hanno sempre giocato nel processo rivoluzionario, dove a contare è in primo luogo lo scontro tra proletariato e capitale.

Nel nostro modello semplificato, dunque, capitalisti e proletari, ciascuno al proprio livello, vivono senza godere della ricchezza che producono, in quanto questa ricchezza si definisce come valore che deve essere valorizzato. Ma allora che cosa producono? Da una parte, i mezzi di sussistenza destinati ai proletari, perché questi ultimi siano messi in condizione di riprodursi e continuare a lavorare, e dall’altra, i mezzi di produzione necessari affinché i proletari, ciclo dopo ciclo sempre più numerosi, possano lavorare per quei capitali che si accumulano e si ingrossano. Affermare che il modo di produzione capitalistico si caratterizza come produzione per la produzione, equivale a dire, in primo luogo, che esso produce soltanto mezzi di lavoro (materie prime, macchine, software etc.) per fare lavorare i proletari, e mezzi di sussistenza8 per far sì che essi si riproducano. Cionondimeno anche i capitalisti devono riprodursi. Il sistema di produzione include dunque un segmento supplementare destinato al consumo dei capitalisti. Tratteremo questo argomento separatamente, quando dovremo definire la nozione di lavoro produttivo.

2. Interdipendenza e moltiplicazione dei capitali

Come si è visto, Marx evoca a più riprese la questione dell’inserzione del produttore privato indipendente nella produzione sociale generale, ma il più delle volte lo fa incidentalmente. Il «lavoro complessivo della società» e la sua divisione non si trovano al cuore della sua analisi del valore. Riprendiamo un passaggio che abbiamo già utilizzato, tratto dal terzo capitolo del Capitale. Affinché si scambi contro denaro,

«la merce deve essere anzitutto valore d’uso per il possessore di denaro, e quindi il lavoro speso in essa dev’essere speso in forma socialmente utile, cioè far buona prova come articolazione della divisione sociale del lavoro. Ma la divisione del lavoro è un organismo naturale spontaneo di produzione, le cui fila si sono tessute e continuano a tessersi alle spalle dei produttori di merci. Può darsi che la merce sia prodotto di un nuovo modo di lavoro, che pretenda di soddisfare un bisogno sopravvenuto di recente, o che voglia provocare per la prima volta, di sua iniziativa, un bisogno. Un particolare atto lavorativo che ancor ieri era una funzione fra le molte funzioni di un medesimo produttore di merci, oggi forse si strappa via da questo nesso, si fa indipendente e, proprio per questo, manda al mercato il proprio prodotto parziale come merce autonoma.» (Karl Marx, Il Capitale, Libro I, Einaudi, Torino 1975, p. 129)

Questo passaggio è interessante tanto per quello che dice, quanto per quello che non dice. In effetti, in esso si afferma che un nuovo mestiere9 nasce per frazionamento di un vecchio mestiere, più completo, o in seguito alla «invenzione» di nuovi bisogni. Si vede qui come la divisione del lavoro si realizzi attraverso la divisione della proprietà. Un mestiere unico si scinde in due mestieri separati, ciascuno dei quali propone ora come merce a pieno titolo ciò che sarebbe apparso come prodotto parziale in rapporto al prodotto del mestiere originale. Allo stesso modo, il capitale sociale complessivo produce continuamente i propri rampolli: nuovi capitali che propongono al mercato merci parziali corrispondenti a sottoinsiemi di quello che, in precedenza, era prodotto da un solo capitale, oppure nuove merci corrispondenti a nuovi bisogni. La produzione capitalistica non si è sviluppata per accrescimento omotetico di alcuni capitali storici che avrebbero presieduto alla nascita del modo di produzione capitalistico, ma per moltiplicazione di nuovi capitali, divisione continuamente rinnovata della proprietà capitalistica. È in questo modo, potremmo dire, che sono nati i «produttori privati indipendenti» di Marx.

Marx, in questo passaggio, dice inoltre che il produttore deve legittimare la sua posizione nella divisione sociale del lavoro. Occorre cioè che il lavoro sia speso in forma utile. Ora, come abbiamo visto, la produzione capitalistica è essenzialmente produzione di mezzi di lavoro e di mezzi di sussistenza. Prima ancora di parlare del tempo di lavoro consacrato al suo prodotto, la condizione essenziale di legittimità di un nuovo produttore è quindi che esso produca un oggetto in grado di servire o come mezzo di produzione per un altro capitale, o come mezzo di sussistenza per i proletari. Questa condizione è necessaria ma non sufficiente. Vedremo che essa deve essere accompagnata da altre condizioni. Tuttavia, per il momento, tanto ci basta ad affermare che produrre valore significa produrre mezzi di produzione (ivi inclusi i mezzi di sussistenza) per un altro capitale. Marx afferma spesso che la natura esatta del bisogno che la merce soddisfa ha poca importanza, e che non è necessario esprimere un giudizio sulla sua validità. È vero che i capitalisti della sezione II della produzione (quella che fabbrica i mezzi di sussistenza) offrono talvolta sul mercato dei prodotti che corrispondono più al capriccio che ai bisogni «reali» degli acquirenti. Ma questo ci interessa relativamente poco. Da una parte, se esiste un mercato di gadget inutili che vengono venduti ai proletari, è perché questi gadget fanno parte dei mezzi di sussistenza necessari alla loro riproduzione, poco importa se sotto l’aspetto fisico, chimico, fisiologico o simbolico. Dall’altra, questo aspetto della produzione di mezzi di sussistenza «simbolici» è marginale rispetto alla produzione generale della sezione II, che si occupa principalmente di fornire ai lavoratori case, automobili, vestiti, cibo etc., i quali costituiscono quella che potremmo definire una domanda incomprimibile10. Infine, bisogna considerare che una parte fondamentale della produzione capitalistica è rappresentata da mezzi di produzione (sezione I: macchine, materie prime etc.), e che qui il bisogno da soddisfare è indubbiamente più specifico e meno lasciato al capriccio, che nella sezione II.

Veniamo ora a quello che, nel passaggio citato più in alto, Marx non dice. Egli non dice perché un mestiere, ovverosia un produttore, si separa e si individualizza come produttore privato indipendente, né come il nuovo produttore trovi la propria collocazione all’interno della divisione sociale del lavoro. E qui, non basta rispondere che la prova della sua legittimità è data dal fatto che incontra una domanda solvibile, poiché è precisamente questo incontro che si deve spiegare. Abbiamo già fornito un primo elemento di risposta, cioè la condizione necessaria affinché l’inserimento nella divisione del lavoro riesca. Nella fattispecie, occorre che il nostro capitalista proponga al mercato merci che possano servire da mezzi di produzione o mezzi di sussistenza per gli altri capitali. È questa la regola fondamentale della conservazione e dell’accrescimento del valore: la nuova produzione deve poter funzionare come capitale. Vedremo, più avanti, le altre condizioni della «legittimazione» del nuovo produttore in seno alla comunità dei capitalisti.

La moltiplicazione dei capitali non ha altro movente che la ricerca di una migliore redditività in rapporto ai capitali già esistenti. Poiché, in ultima analisi, questa redditività si configura come sfruttamento del lavoro, dobbiamo concludere che la generalizzazione del valore equivale ad un approfondimento dello sfruttamento del lavoro. Come abbiamo visto, e come vedremo (§ 3.1), la vera ragion d’essere del valore, è lo sfruttamento del lavoro.

Per il momento, lo sviluppo del valore ci appare dunque come una moltiplicazione di capitali individuali che cercano di soddisfare, attraverso le merci che producono, i bisogni gli uni degli altri, così come quelli dei loro lavoratori. A questo stadio, il valore appare come la meccanica in virtù della quale ogni processo di produzione privato riceve le sue condizioni di esistenza da un altro, che gli è estraneo, e che, allo stesso modo, si sforza di convincere il maggior numero possibile di proletari e di capitalisti dell’utilità e dell’efficacia dei propri prodotti ai fini della loro riproduzione. Questa meccanica definisce l’interdipendenza dei capitali. Marx, dal canto suo, insiste soprattutto sull’indipendenza del produttore privato.

Storicamente, il valore ha imposto la propria legge fornendo ai membri di comunità [precapitalistiche, Ndt] più o meno autarchiche, merci capaci di soddisfare più efficacemente un bisogno che in precedenza era coperto da prodotti fabbricati all’interno della comunità stessa. Tale è, per lo meno, la maniera abituale di presentare l’origine del valore: quando in una comunità appare un surplus inutilizzabile, questa cerca di scambiarlo contro un prodotto di cui non dispone.

«Per un oggetto d’uso la prima maniera d’essere, virtualmente, valore di scambio, è la sua esistenza come non-valore d’uso, come quantità di valore d’uso eccedente i bisogni immediati del suo possessore.» (Ivi, pp. 106-7)

Questo modo di vedere dimentica, il più delle volte, la questione del processo che fa apparire un surplus all’interno della comunità. Ora, a meno di adottare spiegazioni puramente accidentali (ad esempio, climatiche), l’esistenza di un surplus scambiabile ha come causa un aumento della produttività del lavoro in seno alla comunità stessa. Che questo surplus, prima di essere scambiato, sia appropriato collettivamente o individualmente, non cambia nulla al fatto che si assiste allo sfruttamento del lavoro da parte del non-lavoro, il quale procede in quanto tale allo scambio del surplus. I vantaggi ottenuti grazie allo scambio con l’esterno costituiscono una potente spinta allo sviluppo della produttività all’interno della comunità; ciò che equivale a uno sfruttamento più intenso del lavoro. E a sua volta, il perseguimento di una maggiore produttività provoca la frammentazione della comunità, sotto l’effetto del binomio divisione del lavoro / divisione della proprietà, o detto in altri termini, provoca l’apparizione di nuovi produttori privati indipendenti.

Quando la produzione di valore ha assunto la sua forma adeguata di capitale, si è estesa proseguendo lo smantellamento delle forme autarchiche di produzione già avviato dalla piccola produzione mercantile, e ritorcendosi simultaneamente contro quest’ultima per prenderne il posto in quanto capitale. Il sarto ha dovuto cedere il passo al prêt-à-porter. E quando il capitale si è ritrovato solo al comando (sussunzione reale), la necessità inesorabile della sua accumulazione ha determinato l’universalizzazione del valore, che ha occupato ogni sfera della vita per offrire merci là dove, prima, se ne faceva benissimo a meno. Questa «mercificazione» della vita è stata spesso denunciata come l’intollerabile invasione della dimensione privata da parte del capitale, come la distruzione di un’autenticità che, in precedenza, avrebbe prevalso nella vita della gente. Ciò equivale a enfatizzare una forma di sottomissione sminuendone un’altra. In realtà, il movimento di generalizzazione del valore si realizza principalmente come moltiplicazione dei capitali individuali, e va ben oltre la sostituzione del lavoro domestico dei proletari con la fornitura di merci (piatti pronti, servizi di assistenza alla persona etc.). Lo si ritrova anche nel meccanismo delle esternalizzazioni, che insieme alle delocalizzazioni ha assunto dimensioni molto importanti. Ad esempio, con la trasformazione del reparto di una data azienda in un’azienda subappaltatrice indipendente, assistiamo alla nascita di un nuovo produttore privato indipendente (foss’anche soltanto in termini formali, poiché ciò che conta è che esso esista come centro di profitto), cioè di un processo di lavoro che produce per altri processi di lavoro. Una tale operazione ha per scopo quello di rendere i due nuovi capitali più redditizi del capitale che li ha generati; detto altrimenti, di ottenere una migliore valorizzazione del valore iniziale del capitale investito in una sola impresa, e ora diviso in due. In ogni caso, ad essere all’opera è la continua e necessaria divisione e suddivisione della proprietà, la creazione costantemente rinnovata di «produttori privati indipendenti», condizione fondamentale della forma di valore (vedremo più avanti – § 3.1.2 – che alla necessità della continua moltiplicazione dei capitali, si accompagna la tendenza opposta alla loro fusione / concentrazione). Sappiamo che questa forma non caratterizza i prodotti che circolano all’interno di una stessa azienda, poiché qui la divisione del lavoro è soltanto tecnica e non coincide con una divisione della proprietà.

I produttori privati sono dunque indipendenti, ma allo stesso tempo strettamente interdipendenti. La loro interdipendenza è quella assunta dal lavoro quando il martello è fabbricato da qualcuno che non ne ha bisogno, e che per fabbricarlo deve trovare legno e metallo presso chi ne ha prodotto senza averne bisogno.

Nell’analisi del valore sviluppata da Marx, esiste una dicotomia molto marcata tra l’isolamento del produttore privato indipendente nel momento dell’atto produttivo, e la sua socializzazione allorché porta il suo prodotto al mercato per venderlo. Ricordiamo che soltanto eccezionalmente Marx presenta il produttore nelle vesti di compratore. In tal modo, l’indipendenza dei produttori privati non è viene simultaneamente affermata come interdipendenza. Tutti i prodotti convergono verso il mercato per soddisfare una domanda che non viene specificata. Marx dice giustamente che i produttori scambiano tra loro, ma senza trarne tutte le conseguenze, e persino ignorando il problema quando mostra il tessitore comprare una bibbia col denaro ricavato dalla vendita del tessuto (Ivi, p. 128). Data la loro interdipendenza, i produttori privati devono ogni volta ridare prova della loro legittimità all’interno della divisione sociale del lavoro. Questo impone al loro prodotto di rispettare determinate condizioni, alle quali sono sottoposti anche i prodotti dei loro fornitori. In Marx (e anche in Rubin), l’impatto del mercato sul lavoro del produttore è visto solamente come contraccolpo, rappresentazione mentale, prezzo immaginato. Vedremo che è molto più di questo.

Capitali individuali che si moltiplicano e producono gli uni per gli altri: è dunque questa la forma che prende la produzione di ricchezza nel modo di produzione capitalistico. Questi capitali si rapportano gli uni agli altri attraverso lo scambio, e i beni che scambiano hanno la forma di merci. È da qui che prende le mosse l’analisi marxiana. Per quanto ci riguarda, collocando il nostro punto di partenza nella produzione piuttosto che nel mercato, ci siamo in qualche modo posizionati a monte del primo capitolo del Capitale, al capitolo zero. Prima di scambiare merci tra loro, i produttori privati lavorano gli uni per gli altri. L’interdipendenza è la forma assunta dalla loro indipendenza. Essi sono sia venditori che compratori.

Il produttore privato indipendente non è qualcuno che, disponendo del saper fare necessario a fabbricare martelli, li produce e poi va a vedere se c’è qualcuno che ne abbisogna sul mercato. Al nostro capitalista interessano poco i martelli o i chiodi, egli si preoccupa soltanto di produrre qualcosa che valorizzi il suo capitale. Egli opta per i martelli perché conosce il mercato, e il prezzo corrente dei martelli gli mostra che c’è penuria di questi utensili e/o che esiste un modo più efficiente di quello degli altri per produrli. Il lavoro che produce martelli è certamente un lavoro determinato, che ha come fine quello di produrre martelli che possano servire ad altri produttori per costruire intelaiature, frantumare sassi etc. Marx lo definisce «lavoro utile» o «lavoro concreto». Ma è anche e in primo luogo un lavoro destinato a valorizzare il capitale. Marx (a volte) lo chiama – e i marxisti lo chiamano (sempre) – «lavoro astratto».

3. Il lavoro produttivo di valore (lavoro astratto?)

Vogliamo dimostrare, qui, che il lavoro che crea valore è concretamente formattato per questo scopo, indipendentemente dal processo particolare che lo concerne. Il lavoro astratto è tanto poco astratto, che se ne può parlare concretamente. Il mercato, che resta la sanzione finale e inaggirabile di questa socializzazione, non è un’istanza che il produttore scoprirebbe dopo una giornata di fatiche durante le quali si limita a «pensare» al mercato. Nel suo lavoro, qualunque esso sia, egli ha preso delle disposizioni concrete per assicurare la propria inserzione all’interno della divisione generale del lavoro, cioè per garantire che la sua separazione in quanto capitalista privato coincida con la sua socializzazione in quanto fornitore degli altri processi di produzione che lo circondano.

Quando Marx parla di lavoro astratto, intende dire che bisogna fare astrazione dalle determinazioni utili, concrete, di ciascun lavoro per evidenziare ciò che tutti i lavori concreti hanno in comune.

«Queste cose [le merci considerate indipendentemente dal loro valore d’uso] rappresentano ormai soltanto il fatto che nella loro produzione è stata spesa forza-lavoro umana, è accumulato lavoro umano. Come cristalli di questa sostanza sociale ad esse comune, esse sono valori, valori di merci.» (Ivi, p. 47)

Si è visto come, nel primo capitolo del Capitale, il termine «lavoro astratto» venga introdotto senza essere veramente definito né veramente utilizzato. La definizione (principale) che Marx dà del lavoro astratto non è appropriata, nel senso che essa non definisce una forma direttamente sociale, bensì un processo fisiologico che in seguito è necessario collocare nelle condizioni della società mercantile affinché diventi lavoro astratto produttivo di valore. Vogliamo dunque dimostrare che se si fa astrazione da tutte le determinazioni particolari dei lavori che producono merci, restano loro in comune alcune caratteristiche pratiche sociali (e non fisiologiche) che permettono di definire il lavoro genericamente produttivo di valore. Capiremo in seguito se occorre chiamare «astratto» o meno questo lavoro. A tal fine, partiremo da ciò che Marx talvolta evoca ma non sfrutta fino in fondo: il produttore privato indipendente deve dare prova della propria legittimità, deve cioè dimostrare di essere ben inserito nel «lavoro complessivo della società». Abbiamo già detto che la prima condizione affinché ciò avvenga, è che egli produca mezzi di produzione (o mezzi di sussistenza) per altri processi di produzione privati indipendenti da lui. Vedremo ora che questa condizione necessaria si declina secondo due differenti vincoli, che si applicano a tutti i processi di produzione particolari, qualunque sia il valore d’uso prodotto. Così come, per Marx, ogni lavoro è dispendio di forza-lavoro umana, noi diciamo che ogni processo di produzione di merci è allo stesso tempo un processo di produttività e di normalizzazione. Questi due parametri non sono qualche cosa che il produttore privato inventi in un secondo tempo, quando decide di migliorare la sua capacità di penetrazione dei mercati. Essi fanno parte, fin dall’inizio, del lavoro che produce merci in quanto lavoro di produttori privati, separati dal lavoro generale della società e al tempo stesso parte integrante di questo lavoro generale. Attraverso la ricerca della produttività e la normalizzazione, il produttore non ha il mercato «in vista» o «nella testa», ma piuttosto nelle sue mani, dentro la sua stessa officina. Inoltre, come vedremo, questa definizione di ciò che resta quando si fa astrazione dalle caratteristiche particolari di un lavoro concreto, ha il vantaggio di produrre un contenuto specificamente e direttamente sociale. Viceversa, il dispendio di forza umana, di nervi e di muscoli, è un dato psicologico che non è proprio di una particolare forma sociale di produzione, e nemmeno della produzione in generale, poiché lo si ritrova in ogni attività umana che non sia strettamente immobile e incosciente!

La nostra analisi implica di rimettere in prospettiva l’analisi marxiana su due punti elementari: la nozione di tempo di lavoro socialmente necessario e quella di valore d’uso.

3.1. Produttività

3.1.1. Produttività e tempo di lavoro socialmente necessario

La nozione di produttività è inseparabile da quella di valore. Potremmo anzi dire che il valore è stato «inventato» per accrescere la produttività del lavoro attraverso la specializzazione risultante dalla divisione sociale del lavoro. Quanto alla ragione dell’aumento della produttività del lavoro, è evidente che essa deve essere cercata nell’efficacia dello sfruttamento. Il meccanismo del plusvalore relativo rappresenta la verità di questo processo, ma esso è all’opera, benché sotto altre forme, lungo tutto lo sviluppo storico del valore, capitalistico e precapitalistico. Per quanto riguarda lo sfruttamento del lavoro, esso non ha alcun bisogno di essere spiegato qui. Consideriamolo come la variabile esplicativa fondamentale, quella che ci serve da assioma11.

Torniamo alle parole di Marx sulla legittimità del produttore privato indipendente. Marx afferma che il lavoro di quest’ultimo deve essere un lavoro utile (torneremo presto sulla questione). Ci dice inoltre che, affinché la merce «utile» sia accettata, deve essere prodotta nel tempo di lavoro sociale medio o tempo di lavoro socialmente necessario.

«Tempo di lavoro socialmente necessario è il tempo di lavoro richiesto per rappresentare un valore d’uso nelle esistenti condizioni di produzione socialmente normali, e col grado sociale medio di abilità e intensità del lavoro» (Ivi, p. 48)

Questa definizione non include nelle «condizioni normali» della produzione la concorrenza. Ora, la concorrenza tra i produttori è parte integrante del loro statuto di produttori privati indipendenti. Essa è uno degli aspetti della loro socializzazione nella separazione. Non si può dire «produttore privato» al singolare, e dal momento che lo si dice al plurale, si dice anche «concorrenza», allo stesso modo che si dice «scambio». Marx presenta il modo in cui si stabilisce il tempo di lavoro socialmente necessario, come una media che si realizza pacificamente tra differenti processi di lavoro i quali, essendo reciprocamente separati, non sanno nulla gli uni degli altri. Così come non è possibile parlare di produttori privati indipendenti senza parlare di concorrenza – poiché è soltanto attraverso quest’ultima che essi possono provare la loro legittimità all’interno della produzione generale – allo stesso modo è impossibile parlare di tempo di lavoro sociale medio definendolo semplicemente come la media dei differenti tempi di lavoro, non specificati altrimenti che da un «grado sociale medio di abilità e intensità del lavoro». Al limite, questo approccio può adattarsi alle condizioni poco sviluppate della piccola produzione mercantile, ma non a quelle del capitalismo. Qui, come abbiamo visto12, ogni produttore indipendente è necessariamente e costantemente alla ricerca della massima produttività. Le condizioni stesse dell’esistenza della forma di valore, ci costringono dunque a parlare di media dei tempi minimi di ciascun produttore. Per ogni produttore, il «grado sociale medio di abilità e intensità del lavoro» significa dover lavorare sempre al massimo delle proprie possibilità. Laddove Marx ci presenta le preoccupazioni del produttore che si presenta sul mercato senza sapere se la sua merce vi troverà un posto (ad esempio, nel terzo capitolo del Capitale), noi dobbiamo parlare delle preoccupazioni del produttore all’interno del suo laboratorio, della sua fabbrica, poiché egli non sa mai se il suo tempo di lavoro rientra in una media che gli è sconosciuta, e deve dunque sempre spingere la sua produttività al massimo.

Questa tensione permanente, indissociabile dalla produzione di valore, non si limita al timore di veder fallire la conversione della merce in denaro. Essa trasforma ogni processo di produzione in modo concreto e percepibile. Non si tratta solamente dell’intensità del lavoro vivo, della costante preoccupazione di non perdere tempo. Si tratta anche dei procedimenti di lavoro. Qualunque sia il suo contenuto concreto, ogni lavoro che produce valore implica, ad esempio, il fatto di verificare costantemente che i metodi impiegati siano i più efficaci, e dunque di rimettere continuamente in causa i suoi procedimenti produttivi. Il lavoro produttivo di valore include un aspetto riflessivo, di lavoro su se stesso (ricerca e sviluppo). Lo sviluppo delle forze produttive è incluso nella nozione stessa di valore.

Nella ricerca della definizione del lavoro produttivo di valore, poco importano le modalità concrete, storiche, attraverso le quali il produttore ricerca e ottiene un aumento della sua produttività. Ciò che conta, qui, è che questa ricerca è al cuore stesso del suo lavoro in quanto produttore di merci. Nell’analisi di Marx, l’aspetto concreto del lavoro esiste soltanto come qualificazione, abilità, specificità tecnica. E in questo senso, esso è proprio di ogni processo di lavoro particolare. Ma ciò che esiste concretamente in tutti i processi di lavoro che producono merci, è anche la lotta contro il tempo. L’economia – dice Marx da qualche parte – è economia di tempo. Produrre una sedia-merce è un’attività concretamente differente dal produrre una sedia sans phrase, una sedia per sé. Parlando di Robinson Crusoe, Marx descrive la maniera in cui quest’ultimo ripartisce il suo tempo di lavoro in funzione dei suoi bisogni e delle sue risorse. Robinson annota il tempo di lavoro richiesto da ciascun oggetto che egli produce. Si ritrovano qui, secondo Marx, «tutte le determinazioni essenziali del valore» (Ivi, p. 93). In realtà, ne manca una, la concorrenza. Nella misura del possibile, Robinson è padrone del proprio tempo. Il produttore di merci non possiede la stessa comodità. Il tempo non gli appartiene. Esso è posto in una condizione di costante tensione, e per alleviarla almeno temporaneamente, è costretto a trovare modi sempre nuovi per aumentare la sua produttività. Ciò fa parte, molto concretamente, del lavoro quotidiano di ogni produttore di merci. Allorché il tempo di lavoro socialmente necessario si definisce come la media dei tempi di lavoro minimi di ciascun produttore, il lavoro non può più definirsi semplicemente come scambio organico con la natura. Occorre includere nelle definizione del lavoro, il suo aspetto riflessivo, vale a dire la continua modificazione dei metodi, delle materie prime e dei prodotti stessi, allo scopo di risparmiare tempo e garantirsi un posto all’interno del lavoro sociale generale.

Il fatto che Marx, nella definizione del lavoro produttivo di valore, non tenga conto della pressione della concorrenza, può forse essere spiegato da due fattori: da una parte, come si è visto, egli colloca la sua analisi nel contesto di una società prossima alla produzione mercantile semplice. Ora, è vero che storicamente la produzione artigianale, la piccola produzione mercantile, è meno sottoposta alla concorrenza rispetto a quella capitalistica, e sviluppa la sua produttività in maniera relativamente più lenta. Ma è soltanto un questione di gradazione. Non dimentichiamo che le corporazioni furono istituite per stabilizzare una produzione che si stava sviluppando troppo rapidamente, al punto da rimettere in causa i quadri sociali che avevano prevalso durante i primi stadi della piccola produzione mercantile. D’altra parte, quando assume un punto di vista storico, Marx spesso considera come peculiarità della produzione mercantile semplice il lavoro su ordinazione, come se in questo modo di produzione non esistesse un mercato. È evidente che questo è falso, lo stesso Marx ne è consapevole. Anche durante il «tenebroso Medioevo europeo» (Ivi, p. 94), esistevano mercati dove gli scambi non avevano nulla di accidentale. In termini generali, il lavoro del tessitore in quanto produttore privato indipendente, è necessariamente sottoposto a una pressione concorrenziale che il lavoro di tessitura in una famiglia autarchica non conosce. E questo fatto lo trasforma socialmente e materialmente. Il fatto che Marx se ne «dimentichi», è spiegabile col fascino che – come si è visto – esercita su di lui questo modo di produzione, che riconcilia il lavoro (per di più artigianale) e la proprietà. Infine, nel mondo del valore, è la concorrenza a dare impulso allo sviluppo delle forze produttive13. Ora, ci dice Marx, questo sviluppo deve proseguire in modo vigoroso anche nella società comunista che rappresenta il fine del programma proletario. Come ciò possa accadere senza il pungolo della concorrenza, Marx non lo spiega. Abbiamo visto14 che nella società del programma proletario era previsto lo sviluppo delle forze produttive, insieme alla diminuzione del tempo di lavoro e all’aumento del tempo libero e del consumo dei lavoratori. Si afferma così che le forze produttive per svilupparsi non hanno bisogno di concorrenza, poiché possono dispiegarsi rapidamente e «razionalmente» nella società comunista15.

3.1.2. Concorrenza e monopolio

Nel primo capitolo del Capitale, Marx si limita a definire il principio per cui:

«Gli oggetti d’uso diventano merci, in genere, soltanto perché sono prodotti di lavori privati, eseguiti indipendentemente l’uno dall’altro. Il complesso di tali lavori privati costituisce il lavoro sociale complessivo.» (Ivi, pp. 88-89)

La produzione del valore come forma presuppone in effetti che il lavoro sociale sia suddiviso tra proprietari distinti che si rapportano gli uni agli altri attraverso lo scambio. Per quanto riguarda la teoria del valore, Marx si ferma qui: i produttori privati indipendenti hanno tra loro soltanto rapporti di scambio. Questi scambi si realizzano tra produttori appartenenti a branche produttive differenti, poiché i valori d’uso scambiati devono essere distinti. Ma i produttori, all’interno di una medesima branca, sono altresì in un rapporto di concorrenza reciproca. Solo questo rapporto garantisce che il tempo di lavoro impiegato nella produzione di una merce sia il tempo minimo socialmente necessario. Esistono tuttavia, nello sviluppo del capitale, due tendenze opposte.

Da un lato, il perseguimento del profitto suscita in ogni momento la formazione di nuove imprese che trovano, in un prodotto nuovo o rinnovato, l’occasione di «legittimarsi» all’interno del lavoro sociale generale. È attraverso questa ricerca incessante del profitto, condizione della sopravvivenza dei capitali individuali, che il valore estende poco a poco la sua influenza a tutti i settori della produzione e della società. In questo movimento, il plusvalore prodotto dai differenti capitali si accumula sotto forma di capitali nuovi, anziché come accrescimento dei capitali d’origine. Non è qui importante conoscere nel dettaglio il meccanismo finanziario, o di altra natura, attraverso il quale il plusvalore del capitale A si accumula sotto forma di capitale B. Ciò che conta, è la moltiplicazione dei «produttori privati» che infonde la forma di valore a prodotti che prima non la possedevano. Questi capitali sono necessariamente in concorrenza tra loro. La logica stessa della loro formazione, che si impone come una «legge immanente» a tutti i capitali privati, implica che la moltiplicazione di nuovi capitali è la regola dell’accumulazione del capitale. Ma chi dice moltiplicazione dice concorrenza, e dice perciò ricerca della produttività. La ricerca della produttività di ciascun capitale individuale si ripercuote in un aumento generale della produttività sociale, ed è il capitale nel suo insieme a beneficiarne sotto forma di plusvalore relativo.

Dall’altro lato, ogni capitale individuale, in modo altrettanto naturale, cerca di raggiungere una dimensione tale da garantirsi una posizione monopolistica – o oligopolistica – sul mercato in cui agisce. Favorevole alla valorizzazione del singolo capitale, il monopolio è contrario agli interessi del capitale in generale. Esso estorce agli altri capitalisti, attraverso prezzi superiori ai prezzi di produzione, una quota del plusvalore sociale. Questo prelievo rallenta l’accumulazione. Ma questo fatto è davvero dannoso per i capitalisti in generale? In fin dei conti, il plusvalore che non si accumula nei capitali che subiscono il prelievo da parte dei monopoli, si accumulerà presso questi ultimi. Non è forse questo l’essenziale? Non proprio. Infatti, come abbiamo detto, lo sviluppo del valore passa per la divisione della proprietà, cioè per la moltiplicazione dei «produttori privati». È solamente attraverso quest’ultima che la forma di valore estende il suo ascendente sulla società. La legittimità dei nuovi capitali all’interno della divisione generale del lavoro dipende dai vantaggi di produttività di cui dispongono, e di cui approfittano anche i loro clienti in virtù dei prezzi più bassi imposti dalla concorrenza. Al contrario, un monopolio si sforza di tenere per sé questi vantaggi, cosicché gli altri capitali non traggono alcun beneficio dagli incrementi di produttività che esso ottiene. I monopolisti e gli oligopolisti esistono grazie alle barriere che essi erigono contro l’ingresso di nuovi capitali nella loro branca produttiva. Questo costituisce evidentemente un freno alla moltiplicazione dei capitali individuali e all’aumento della produttività sociale generale.

C’è dunque identità tra lo sviluppo del valore come forma, la moltiplicazione dei capitali indipendenti e l’aumento della produttività. Al tal punto che certe imprese mono- o oligopolistiche esternalizzano alcune loro attività, o le trasformano in imprese subappaltatrici, per farne dei «centri di profitto» sottoposti ai principi di produttività e redditività. Ad esempio, molti costruttori di automobili hanno trasformato in capitali indipendenti le loro produzioni di componentistica (è il caso di Faurecia per PSA, o di Delphi per General Motors).

Il «club» dei capitalisti se ne infischia della forma di valore, ma è molto sensibile al problema della produttività generale del capitale sociale. E questo, fondamentalmente, perché l’aumento della produttività generale innesca la produzione di plusvalore relativo. Si torna sempre allo sfruttamento del lavoro come radice fondamentale dello sviluppo del valore. È per questa ragione che gli Stati, pur essendo amici dei grandi monopoli, non hanno mai smesso di sorvegliare la concorrenza tra le imprese imponendo che essa continui a svolgere il proprio ruolo. Si tratta semplicemente di far rispettare le regole interne del club, che assicurano lo sviluppo del valore e della produttività.

A proposito dei cartelli e dei trusts della fine del XIX secolo, Hilferding scriveva:

«La funzione socializzante del capitale finanziario facilita straordinariamente il superamento del capitalismo. Una volta che il capitale finanziario abbia assoggettato a sé i più importanti rami produttivi, per poterli controllare, la società non avrà che da impadronirsi del capitale finanziario servendosi in ciò del proprio consapevole organo esecutivo: lo Stato, di cui il proletariato si sarà nel frattempo impadronito.» (Rudolf Hilferding, Il capitale finanziario, Feltrinelli, Milano 1972, p. 487).

Hilferding non arrivava a sostenere che il capitale fosse destinato a trasformarsi in un unico e grande monopolio, ma pensava che la forte tendenza alla concentrazione del capitale gettasse ampiamente le basi del programma proletario della pianificazione. In tal modo, egli sottostimava grandemente l’importanza della concorrenza nel sistema del valore. Infatti, la ricerca costante di incrementi di produttività, che passa attraverso la moltiplicazione dei capitali e la concorrenza permanente, fa parte della definizione stessa del valore. Su questa base, e prima ancora di sapere che cosa produca concretamente, il lavoro che produce merci è plasmato, è concretamente determinato dal fatto di costituire un’incessante lotta contro il tempo.

3.2. Normalizzazione

3.2.1. Utilità degli oggetti e valore d’utilità delle merci

Per comprendere cosa significhi la normalizzazione degli oggetti e delle attività nel regno del valore, partiamo dalla differenza tra utilità e valore d’uso. Come abbiamo visto16, questa distinzione non è rintracciabile in Marx. Marx ed Engels si limitano a dire che l’oggetto deve essere utile per un altro, e che la sua trasmissione a questo «altro» deve avvenire attraverso lo scambio. Ma, per essi, questa «utilità per l’altro» non tocca l’oggetto nella sua intimità; essa significa solamente che il produttore deve produrre un oggetto che possa soddisfare il bisogno altrui. L’utilità dell’oggetto continua ad inscriversi nelle sue proprietà naturali. Ora, l’«altro» di cui il produttore vuole soddisfare il bisogno, è conosciuto soltanto imperfettamente. Solo la vendita della merce confermerà che la scommessa fatta dal produttore è stata vinta. La normalizzazione del prodotto, come vedremo, fa parte di questa scommessa inerente la produzione di merci. Allo stesso modo della ricerca della produttività, essa è il marchio, all’interno della produzione, della separazione dei produttori privati indipendenti. In questo senso, la normalizzazione imprime all’utilità dell’oggetto un segno nettamente sociale. Impiegherò il termine valore d’utilità per sottolineare che l’utilità del prodotto non ha nulla di naturale. Essa è profondamente marcata dal fatto che l’oggetto prodotto è fondamentalmente una merce. Il termine valore d’uso è troppo segnato dalla tradizione marxiana, poiché indica un’utilità naturale che verrebbe conservata, o persino liberata dalla morsa del valore di scambio, anche dopo l’abolizione del valore. Il valore d’utilità deve allora essere inteso come una categoria pienamente sociale, appartenente a pieno diritto alla teoria del valore. Proviamo ad osservare tutto ciò più da vicino, cominciando da un esempio storico.

Quando, nei modi di produzione precapitalistici, la divisione del lavoro si realizza anche come divisione della proprietà, si assiste alla dissoluzione di una forma di comunità e all’espansione del regno del valore. In Per la critica dell’economia politica, e ancor più nel primo capitolo del Capitale, Marx considera il valore come dato. Non si interessa alla sua apparizione storica, oppure lo fa soltanto per fugaci allusioni. Egli si limita ad osservare, senza insistervi, che «gli oggetti d’uso diventano merci, in genere, soltanto perché sono prodotti di lavori privati, eseguiti indipendentemente l’uno dall’altro» (cit.). Ora, è precisamente questo processo che bisogna esaminare, quello per cui, sulla base della divisione del lavoro, i produttori appaiono nella loro indipendenza ed interdipendenza.

Quando un processo di lavoro, essendosi specializzato, si separa dalla comunità nella quale trovava la sua base e il suo «sbocco», perde la particolarità propria di questa comunità, e deve accedere a un grado di genericità tale da permettere il suo inserimento nell’interdipendenza sociale dei processi di lavoro che si va costituendo, e di cui il produttore non conosce, o conosce male, i parametri. Si è già visto quali imperativi di produttività ciò imponga al produttore diventato indipendente. Ma c’è di più. Il lavoratore che produce un tavolo per la sua famiglia, produce il tavolo di cui questa ha bisogno con i mezzi di cui dispone. Nel momento in cui diventa falegname indipendente, dovrà fabbricare tavoli capaci di rispondere a differenti manifestazioni del bisogno di tavoli, manifestazioni che egli conosce poco o per niente, poiché è un produttore privato. L’oggetto-tavolo ne risulta concretamente modificato. Salvo eccezioni, le merci prodotte non lo sono su richiesta, ma per un mercato, con tutte le incognite che questo comporta. Per essere sicuro di incontrare la domanda di cui necessita per vendere i suoi articoli, il produttore privato deve concepire l’oggetto in modo tale che possa servire da tavolo in condizioni variabili (e sconosciute), differenti da quelle della sua comunità d’origine (si può dire lo stesso di un capitalista che voglia vendere su dei mercati d’esportazione un prodotto che si smercia bene sul suo mercato domestico). Occorre che il tavolo non sia troppo grande né troppo piccolo, né troppo pesante né troppo leggero, che possa servire in cucina ma anche altrove etc. E anche se il falegname si specializza in tavoli da cucina, si renderà necessaria la stessa opera di normalizzazione: come si cucina nei villaggi o nei paesi vicini? Quali sono le dimensioni della stanza destinata alla cucina? E così via. In breve, il tavolo concreto che il falegname costruisce deve in qualche modo avvicinarsi al «concetto» di tavolo. È in questo senso che il tavolo in quanto oggetto utile, diventa il tavolo in quanto valore d’utilità. Si tratta di una della condizioni della sua scambiabilità. Marx afferma che la merce, nel momento stesso in cui viene prodotta, è già scambiata «nel pensiero». Comprendiamo ora che c’è qualcosa di più: è proprio nell’attività immediata del produttore che lo scambio è già presente. La scambiabilità dell’oggetto prodotto non dipende soltanto dal suo valore di scambio, dal tempo di lavoro socialmente necessario a produrlo, ma anche dalla forma materiale attraverso la quale mira a soddisfare un bisogno. Per consumare la cena nella sua fattoria autarchica, il contadino può sedersi sopra un ceppo di legno. Per il falegname indipendente, soddisfare il bisogno di sedersi significa fabbricare sedie o sgabelli. Chiamiamo normalizzazione questo processo attraverso il quale l’utilità diventa valore d’utilità.

In virtù di questo processo di normalizzazione, la merce che soddisfa un bisogno particolare possiede una forma materiale (un valore d’utilità) più generica rispetto a tale particolarità, poiché, in ragione della separazione in cui si trova il produttore in relazione alla manifestazione del bisogno, essa deve poter rispondere a molte manifestazioni particolari di esso (sedia da chiesa, da fattoria, da ufficio etc.). Questo aspetto della normalizzazione viene ancor prima dei vantaggi che ne derivano dal punto di vista della produttività del lavoro che produce merci (cfr. ultra). Esso è la conseguenza immediata e inevitabile dell’apparizione del famoso produttore privato indipendente. Come si è già visto, la sua indipendenza è allo stesso tempo una interdipendenza. Ma nel processo «spontaneo» della divisione sociale del lavoro, il produttore indipendente non aspetta di trovarsi sul mercato per annunciare di inserirsi nel lavoro sociale generale. Egli lo fa fin sin da principio, non soltanto con la scelta dell’oggetto da produrre, ma anche attraverso la forma che dà a tale oggetto, il quale deve rispettare una serie di norme generali per poter soddisfare bisogni particolari che il produttore non conosce se non imperfettamente, non già per ignoranza ma in ragione della sua posizione all’interno della società. È noto che i migliori studi di mercato non garantiscono il successo di un prodotto. Il vantaggio di cui il produttore privato beneficia, nel caso in cui il suo ragionamento abbia successo, non dev’essere trascurato. Se il suo concetto di tavolo copre un ampio ventaglio di bisogni e permette una produzione in serie, la normalizzazione si traduce in un incremento della produttività. Ma questo argomento può intervenire soltanto dopo la considerazione fondamentale del valore d’utilità in quanto forma dell’utilità nella società mercantile. Su questa base, non si può porre l’esistenza del valore e della merce senza la nozione di normalizzazione. Quest’ultima discende dalle condizioni sociali stesse della forma di valore, cioè dalle condizioni di produzione dei produttori privati. E da queste condizioni consegue che la normalizzazione, proprio come la produttività, non è mai un dato acquisito, ma una ricerca permanente di adeguamento del prodotto a bisogni che sono solo parzialmente conosciuti. Il produttore è separato dagli altri produttori, e i bisogni di questi ultimi non hanno alcuna ragione per non evolvere costantemente. Le condizioni sociali della produzione di valore implicano, come si è visto, un continuo sconvolgimento delle condizioni di produzione. La ricerca di normalizzazione è dunque un processo permanente e generalizzato, indipendentemente dal valore d’utilità prodotto.

Il fenomeno della normalizzazione è ovviamente ben presente nel modo di produzione capitalistico pienamente sviluppato. La normalizzazione dell’oggetto (e del bisogno che soddisfa) risponde indubbiamente a considerazioni commerciali o tecniche ma, sostanzialmente, siamo in presenza del medesimo processo, per cui il produttore di merci deve produrre oggetti dall’utilità normalizzata per rispondere a una domanda dalla quale è fondamentalmente separato. Senza dubbio, la separazione stessa in cui si trovano i produttori indipendenti (ivi inclusi i proletari) implica che l’eventuale particolarità del loro bisogno specifico si debba calibrare su ciò che offrono gli altri produttori, che hanno già operato delle «medie» normalizzando la loro produzione. Di modo che, senza nemmeno dover tirare in ballo gli effetti eventuali della pubblicità, la domanda si normalizza nella misura stessa in cui si standardizzano le merci che rispondono più o meno bene ai differenti bisogni di produzione o di consumo. Si potrebbe quindi pensare che il valore d’utilità sia l’utilità normalizzata perché «tutti vogliono la stessa cosa». In realtà, avviene l’inverso. Tutti accettano la stessa cosa perché, ad esempio, il bisogno di vestiti nella società capitalistica è soddisfatto dal prêt-à-porter e non più dal sarto che cuce su misura. Certo, potremmo dire semplicemente che la necessità di produrre grandi volumi della medesima merce, porta naturalmente con sé la normalizzazione. Tuttavia è proprio perché la varietà delle manifestazioni possibili di uno stesso bisogno viene cancellata dalla normalizzazione dell’offerta, che la produzione di tali volumi diventa possibile.

Quando un nuovo capitale si costituisce sulla base di un nuovo prodotto, esso mira simultaneamente alla particolarità, per imporsi nella divisione generale del lavoro, e alla genericità, per essere sicuro di incontrare un vasto campione del bisogno che intende soddisfare e assicurarsi così determinati volumi produttivi. La particolarità risulta spesso illusoria (un cambiamento di dettaglio in un prodotto già conosciuto e diffuso, ad esempio una nuova funzione in un telefono cellulare), ma può anche essere ben reale, come ad esempio nel caso dell’introduzione del personal computer. Nel primo caso, la norma è già stata stabilita dai suoi concorrenti e il nostro capitalista tenta di modificarla marginalmente. Nel secondo, la nuova merce è inizialmente unica nel suo genere e il problema, per il nostro capitalista, è quello di imporre il suo valore d’utilità come la norma del mercato che si svilupperà. Tale questione è al centro di intense rivalità, ad esempio tra le società multinazionali dell’elettronica. Ricordiamo tuttavia che, in entrambi i casi, la particolarità dell’oggetto rimane quella di una merce, senza rapporto alcuno con le molteplici manifestazioni e forme di soddisfazione teoricamente possibili di un bisogno individuale. Queste ultime rimangono in effetti teoriche, nella misura in cui la normalizzazione delle merci standardizza per forza di cose i bisogni a cui esse fanno fronte. Nella sua banlieue, il proletario affamato pensa «naturalmente» a un pasto da McDonald’s. In conclusione, nella società capitalistica, l’«autenticità» o la particolarità di un bisogno non vanno oltre il limitato ventaglio delle merci che gli stanno dinnanzi.

L’utilità di un oggetto si trasforma dunque, nel mondo del valore, in valore d’utilità della merce. Il valore d’utilità è una categoria del valore, della società, e non della natura. Per Marx, il valore d’uso è soltanto un supporto del valore di scambio. Per noi, il valore d’utilità fa parte della forma sociale della merce, è la manifestazione del valore nell’oggetto. E quando si tratterà di abolire il valore, il valore d’utilità non sarà preservato in nome dell’utilità della cosa. La distinzione che abbiamo posto tra utilità e valore d’utilità, annuncia nel comunismo un’attività produttiva dove la particolarità dei bisogni individuali sarà pienamente in gioco.

3.2.2. Normalizzazione del lavoro

La normalizzazione del prodotto si accompagna necessariamente a quella dell’attività di chi lo fabbrica. Il lavoro che produce merci non è lavoro in generale. Abbiamo visto che per Marx il lavoro che produce merci non è sostanzialmente diverso da quello che non le produce (nel comunismo marxiano, ad esempio, o nei modi di produzione premercantili). Ora, l’attività che produce tavoli-merce è concretamente differente da quella che fabbrica il tavolo del contadino autarchico. Il tavolo-merce non può più essere assemblato alla bell’e meglio con ciò che si ha sottomano, ma dovrà essere lo stesso tavolo che altri produrrebbero nelle condizioni che sono loro proprie e che il nostro falegname conosce poco e male. La normalizzazione dell’utilità dell’oggetto determina quella dei procedimenti di lavoro. Il fatto che tutti i tavoli che escono dalla fabbrica siano identici, ci appare come assolutamente naturale. Si tratta, in realtà, di una specificità della merce. Una volta definito il valore d’utilità, il lavoro che produce il tavolo deve attenersi a tale definizione – almeno fino a quando il fabbricante di mobili non modifica il suo concetto di tavolo.

Ancora una volta, questi aspetti vengono prima di ogni considerazione sull’organizzazione del lavoro in funzione dell’aumento della produttività. Essi condizionano la scambiabilità della merce allo stesso titolo del tempo di lavoro consacrato alla sua produzione. In altri termini, un lavoro estremamente rapido ed efficiente non serve a nulla, nel mondo delle merci, se produce soltanto un oggetto e non un valore d’utilità. Così come l’oggetto-tavolo è normalizzato nel valore d’utilità del tavolo, allo stesso modo il lavoro che lo produce cessa di possedere le caratteristiche del lavoro autarchico. Supponiamo che la norma per un tavolo sia definita, in un dato momento, dall’avere un piano liscio e rettangolare, un cassetto e quattro gambe della stessa lunghezza. Ogni produttore di tavoli dovrà, d’ora in avanti, saper organizzare ed eseguire il lavoro per ottenere questo risultato. Piallare le assi, assemblarle affinché formino il piano del tavolo etc., diventano le sole operazioni attraverso le quali, nel mondo delle merci, un tavolo possa nascere. Nessuna improvvisazione o fai-da-te sono permessi.

Nel caso del lavoro salariato, l’operaio non partecipa alla definizione del valore d’utilità. Quest’ultimo gli è indifferente. Sono i salariati degli uffici progettazione che, avendo definito l’esatto valore d’utilità della merce che dev’essere prodotta, fissano di conseguenza anche le norme del lavoro che svolgerà l’operaio. All’operaio non si dice: «Fa’ dei tavoli!». Gli si dice piuttosto: «Ecco un pannello di legno. Ritaglia un rettangolo di tali dimensioni! Ecco la colla e cinque assi. Fa’ un cassetto!». Così come il valore d’utilità del tavolo viene definito in maniera normativa per chi ha bisogno di un tavolo, allo stesso modo l’operaio che lo fabbrica non può scegliere la maniera in cui farlo. La sua eventuale immaginazione in materia, la deve lasciare nello spogliatoio. Non c’è spazio per la fantasia. I gesti del «produttore di tavoli» sono predefiniti dalla normalizzazione del prodotto – e non soltanto dalla volontà del capitalista di risparmiare tempo.

Allorché il capitalismo si sviluppa e impone le sue specifiche condizioni ad ogni aspetto della produzione, la normalizzazione del lavoro salariato si afferma ancor più in quanto la normalizzazione del prodotto permette la produzione in serie e l’introduzione del macchinismo. Quest’ultimo trasforma il lavoro dell’operaio in un insieme di gesti semplici e più o meno sempre identici, che prescindono dal valore d’utilità prodotto. Avvitare un bullone, servire una macchina etc., rappresenta lo stesso tipo di lavoro per l’operaio del settore dell’automobile e per quello dell’elettrodomestico. Continuano ad esistere senza dubbio differenti categorie professionali, come gli edili, i metallurgici etc., ma nell’insieme il lavoro, nel modo di produzione capitalistico, si è trovato ad essere trasformato in un insieme relativamente ristretto di gesti relativamente semplici. È in questo modo che possiamo definire la normalizzazione del lavoro salariato. Che la dequalificazione del lavoro sia anche il risultato della lotta di classe tra capitalisti e operai, non toglie nulla al fatto che l’esito di questa lotta, la soluzione che i capitalisti impongono agli operai, si inserisce nel quadro della produzione di valore ed è dunque conforme all’essenza del lavoro produttivo di valore: la dequalificazione del lavoro si realizza in quanto sua normalizzazione spinta all’estremo.

Se si fa astrazione dal loro contenuto concreto particolare, si vede dunque che tutti i lavori che producono valore hanno in comune il fatto di essere il risultato di uno sforzo di normalizzazione. Si pone tuttavia la questione di sapere chi metta in atto questa normalizzazione del lavoro. L’operaio, figura emblematica del produttore di valore, non sembra avervi un ruolo particolare. Al contrario, egli la subisce suo malgrado. Certo, è l’operaio che produce, e all’interno di norme definite in modo sempre più stringente, ma sono gli uffici progettazione a stabilire tali norme. Pertanto, se la normalizzazione del lavoro è parte integrante della produzione del valore, dove risiede la produzione del valore come forma? Presso l’operaio o negli uffici progettazione? Ponendo la domanda in altri termini: è l’operaio che cerca di inserirsi nella divisione generale del lavoro? La risposta è che la produzione di valore, nel modo di produzione capitalistico, è sempre un risultato del lavoratore collettivo. È soltanto a questo livello che si assiste allo sforzo di inserzione di un capitale particolare nella divisione generale del lavoro, in termini di produttività e di normalizzazione.

Abbiamo visto che il «produttore» deve normalizzare il suo prodotto, e dunque il suo lavoro. Nella realtà capitalistica, questo personaggio si scinde in una molteplicità di funzioni. Per definire il valore d’utilità della merce progettata, il capitalista dispone di uffici studi che ne specificano le caratteristiche e organizzano la normalizzazione del lavoro che la dovrà produrre. Spesso in un rapporto antagonistico tra loro, entrambe queste categorie di lavoratori partecipano alla creazione di valore. Lo sforzo di inserzione di un dato capitale nella divisione sociale del lavoro, è garantito da una frazione della forza-lavoro piuttosto attiva, qualificata e ben pagata (i lavoratori degli uffici progettazione – il cui lavoro, tuttavia, è esso stesso sempre più normalizzato), e da una frazione piuttosto passiva, dequalificata e mal pagata (gli operai di fabbrica – seppure le regole moderne della «qualità totale», della strategia «zero difetti» cercano di imporre un certo grado di iniziativa normalizzatrice al lavoro non qualificato).

Il lavoro che produce valore non è dunque un lavoro qualunque. A prescindere dal suo contenuto concreto, esso è sottomesso a un processo di normalizzazione, il quale discende direttamente dal fatto che la produzione poggia sull’esistenza di produttori privati indipendenti. Ogni produttore di merci deve concepire il contenuto utile degli oggetti che fabbrica in termini di valore d’utilità; ne consegue ch’egli deve costantemente normalizzare la sua attività. Il produttore non può dire: «Oggi ho voglia di costruire un tavolo a tre gambe», se la norma corrente per un tavolo è di avere quattro gambe. Nelle condizioni capitalistiche di produzione, la normalizzazione del lavoro è portata a un grado estremo. Ma in tutti i casi, questa seconda caratteristica del lavoro produttivo di valore non è affatto astratta. Essa definisce il lavoro praticamente, allo stesso titolo della ricerca della produttività.

3.3. Definizione del lavoro valorizzante

Cerchiamo di concludere riguardo al lavoro astratto. È ancora necessario utilizzare questa espressione? Nella terminologia corrente, l’aggettivo «astratto» designa il lavoro produttivo di valore: mentre il lavoro concreto è il lavoro che produce oggetti utili, con tutte le loro specificità naturali e tecniche, il lavoro astratto è quello che produce valore, quello che si cristallizza nella sostanza che conferisce alla merce il suo valore – il lavoro morto. Per Marx, che impiega poco il termine e non lo definisce mai in modo specifico, «astratto» significa piuttosto «molto generale»: si tratta per lui di designare ciò che vi è di comune in tutti i lavori particolari, si tratta cioè di fare astrazione dai caratteri specifici dei lavori concreti. E qualunque cosa ne pensi Rubin, Marx giunge allora, in linea generale, alla dimensione fisiologica del lavoro. Come abbiamo visto17 per Rubin, che ha difficoltà a collocare la fonte del valore all’interno della produzione, «astratto» significherà invece «lavoro trasformato in seconda battuta da un’operazione più logica che reale».

Sulla base di quanto precede, il lavoro produttivo di valore ci appare come qualche cosa di assai poco astratto, nel senso che possiamo attribuirgli alcune caratteristiche concrete, alcune specificità di contenuto che determinano la sua realtà materiale e sociale. Dopo aver considerato l’attività dei produttori privati indipendenti e aver fatto – come Marx – astrazione dalle particolarità concrete di ciascun processo di lavoro, quali elementi ad essi comuni abbiamo trovato? La ricerca costante di un aumento della produttività e la normalizzazione (che è parimenti un processo ininterrotto). Il lavoro produttivo di valore è quindi una pratica concreta (nel senso marxiano) che produce oggetti qualsivoglia, ma che si caratterizza come produttiva di valore in virtù della sua continua tensione produttiva e normalizzatrice. Questa tensione, lungi dall’essere semplicemente psicologica e dall’esistere soltanto nella testa del «produttore», informa sin da principio ogni gesto del lavoro. Né la ricerca della produttività, né la normalizzazione sono necessarie alla produzione di tavoli. Esse lo diventano nella misura in cui un tavolo dev’essere una merce. Il lavoro produttivo di valore non produce l’oggetto nella sua natura di tavolo o di sedia, ma è quel momento del lavoro che, attraverso la ricerca concreta, materiale, della produttività e della normalizzazione, crea le condizioni della scambiabilità. La produzione di valore implica un lavoro sul lavoro che solo può generare la forma della scambiabilità.

Marx dice che, una volta fatta astrazione dalle specificità concrete di ogni lavoro particolare, ciò che si trova in tutti i lavori utili è soltanto il dispendio fisiologico di energia umana – che è astratto nel senso di «generico». Da parte nostra, dobbiamo oramai affermare che ciò che resta del lavoro produttivo di merci dopo l’eliminazione delle caratteristiche tecnico-materiali che gli sono proprie, è la ricerca della produttività e della normalizzazione – ciò che designa delle pratiche ben identificabili, comuni a tutti i processi di lavoro particolari. Il lavoro mantiene certamente il suo doppio carattere: esso è al contempo produzione di oggetti utili e produzione di valore. Ma, in qualche modo, entrambi questi suoi aspetti sono concreti. Ecco perché, in fin dei conti, ci sembra preferibile rinunciare al termine «astratto» per definire il lavoro produttivo di valore. Tanto più che esso è profondamente segnato dalle innumerevoli analisi che, come quella di Rubin, hanno tentato di attribuire a questo concetto un significato chiaro. Impiegheremo dunque, per designare il lavoro produttivo di valore, l’espressione lavoro valorizzante.

Alcuni lettori potrebbero pensare che la ridefinizione del lavoro astratto rappresenti una rottura con Marx. Il mio intento è tuttavia soltanto quello di porlo all’altezza della nostra epoca. Per raggiungere questo risultato, sottolineiamo che siamo partiti proprio da Marx18, interrogando la pertinenza del suo «produttore privato indipendente», figura che è allo stesso tempo lavoratore e proprietario. È stato sufficiente spingere l’analisi marxiana fino alla sua conclusione logica, per passare dal tempo di lavoro socialmente necessario al tempo di lavoro minimo socialmente necessario, e dal lavoro utile per l’altro al valore d’utilità in quanto utilità normata. Per fare ciò, tuttavia, occorre considerare che il lavoro in generale, e in particolare il lavoro industriale e lo sviluppo delle forze produttive – che Marx conserva nella sua visione della produzione comunista19 – non sono l’unica forma possibile di scambio organico con la natura. La nostra epoca permette questo cambiamento di prospettiva. Vedremo più avanti20 come la negazione del valore tale quale l’abbiamo ridefinito, sfocia su una visione totalmente rinnovata dell’attività produttiva nel comunismo.

È ora necessario chiarire il ruolo dello scambio, che interviene dopo la produzione. Il produttore ha prodotto – nella separazione ma anche nell’interdipendenza rispetto agli altri produttori – una merce che è destinata allo scambio, non solo idealmente ma in modo molto concreto. Il prodotto del suo lavoro si trova nella forma di valore. Esso è stato prodotto in quanto mezzo di produzione (o mezzo di sussistenza) per altri processi di lavoro indipendenti, e il suo valore d’utilità costituisce un’utilità normalizzata a tale scopo. Infine, il produttore ha consacrato soltanto il tempo di lavoro minimo necessario alla produzione della sua merce. L’inserzione del nostro produttore nella divisione generale del lavoro non sarà quindi «puramente accidentale», anche se resta, è vero, subordinata al compimento dello scambio con altri produttori. Questo scambio, come si dice correntemente, realizza il valore prodotto nella sfera della produzione. Come si deve intendere il termine «realizzare»? Per rispondere, occorre innanzitutto comprendere cosa siano la sostanza e la grandezza del valore.

4. Sostanza, grandezza e realizzazione del valore

4.1. Riepilogo

Fin qui, abbiamo definito il valore come la forma dei mezzi di produzione e di sussistenza che i produttori privati indipendenti si cambiano per riprodurre la propria attività produttiva. In un modello sociale propriamente capitalistico, tutto ciò si struttura in due branche produttive, quella che produce i mezzi di produzione e quella che produce i mezzi di sussistenza destinati ai proletari. Vedremo più avanti21 come affrontare la questione del consumo dei capitalisti.

Il valore, come forma, viene generato allorché la divisione del lavoro coincide con la divisione della proprietà. È questo fatto che fa apparire i produttori privati indipendenti e, simultaneamente, il mercato. Lo sviluppo del mercato è la conseguenza dei progressi della divisione sociale del lavoro, e non il contrario. E come abbiamo detto, la divisione sociale del lavoro si spiega col fatto che essa equivale a un aumento della produttività del lavoro. Ma abbiamo anche visto che questo incremento della produttività non consiste semplicemente in un’accelerazione del lavoro preesistente, bensì implica una trasformazione formale e materiale del processo di lavoro. Il lavoro valorizzante non è un lavoro naturale, eterno, «proprio dell’uomo», che sarebbe semplicemente sottomesso alle condizioni storiche della società mercantile. Esso non è il lavoro premercantile calato nelle condizioni del mercato. Il lavoro valorizzante è una forma caratteristica, specifica, di lavoro. Questa forma si definisce per la ricerca costante della produttività e della normalizzazione. È necessario ora esaminare il contenuto di questa forma per comprendere come gli scambi siano regolati dalla misura del valore.

4.2. Il tempo, sostanza del valore

Abbiamo visto22 le difficoltà incontrate da Marx e Rubin nel definire la sostanza del valore. Non soltanto la loro definizione del lavoro astratto è piena di esitazioni, ma di più il lavoro astratto morto, che si suppone essere la sostanza del valore, è introdotto senza alcuna spiegazione. La «cristallizzazione» del lavoro vivo, l’attività produttiva di valore, in lavoro morto, la sostanza del valore, non è oggetto di alcuno sviluppo specifico. Forse conviene allora chiedersi, in primo luogo, la ragion d’essere di questa nozione di sostanza del valore. Perché occorre che il valore abbia una sostanza? La risposta va data a più livelli.

4.2.1. Incorporazione del lavoro valorizzante nella merce

Nella logica marxiana, la sostanza del valore incorporata nella merce certifica il fatto che la fonte del valore è proprio il lavoro. Il lavoro cristallizzato in lavoro morto «prova» che la fonte del valore è il lavoro vivo. Dire che la sostanza del valore è il lavoro morto, significa innanzitutto dire che la sorgente del valore è il lavoro. Ricordiamo che, per Marx e Rubin, il lavoro è dato come forma normale, eterna, dello scambio tra l’uomo e la natura. Il prodotto del lavoro in quanto valore d’uso (nell’accezione marxiana) non è differenziato come valore. Un tavolo è un tavolo, che si tratti o meno di una merce. Sono in ultima analisi le condizioni sociali (mercantili) nelle quali si svolge il lavoro, che fanno sì che esso produca valore. Identificando la sostanza del valore nel lavoro cristallizzato e depositandola nel prodotto del lavoro, l’analisi marxiana garantisce che il lavoro, benché forma indifferenziata dello scambio tra uomo e natura, sia la sorgente del valore che manifestamente il prodotto contiene al momento dello scambio. Ma in Marx e Rubin, esso diventa questa sorgente solo dopo essere stato anche definito come lavoro astratto.

La questione del nesso tra il lavoro e il valore si pone in maniera differente laddove abbiamo definito il valore come una forma sociale specifica, ma concreta, dei prodotti del lavoro – lavoro che abbiamo specificato come differente da quello premercantile. In ragione della normalizzazione e della ricerca permanente della produttività, gli oggetti che il lavoro valorizzante produce portano concretamente il segno del fatto di essere valore, e allo stesso modo il lavoro che li produce non può essere altro che lavoro valorizzante, sorgente del valore. A questo livello, quindi, la nozione di sostanza del valore non ci è utile. Il valore imprime ai mezzi di produzione e di sussistenza una forma concreta che è manifestamente connessa al lavoro valorizzante. Quest’ultimo non è astratto ma è definito materialmente dalla ricerca della produttività e dalla normalizzazione.

4.2.2. La sostanza del valore come ciò che circola

D’altronde, la sostanza del valore è «ciò che circola» nella società mercantile. Se una determinata quantità di valore passa da un produttore all’altro, bisogna pure che ciò che viene in tal modo trasferito abbia una sostanza. Questo punto merita un approfondimento.

Quali sono i casi in cui vi è trasferimento di valore? Occorre innanzitutto eliminare lo scambio di equivalenti tra due possessori si merce. In questo caso, infatti, non abbiamo un trasferimento di valore, bensì una semplice permutazione delle forme del valore: ad esempio, merce contro denaro.

In secondo luogo, possiamo parlare di trasferimento di valore tra i mezzi di produzione e la merce prodotta? La macchina, in virtù del suo stesso funzionamento, trasferisce un po’ per volta il suo valore ai prodotti. Questo punto di vista, che ritroviamo correntemente nella letteratura marxista, consiste nel considerare la macchina una cristallizzazione di lavoro e la sua usura come il passaggio dei suddetti cristalli nel prodotto. È un modo un po’ complicato di parlare di ammortamento. Quest’ultimo è calcolato solitamente in forma monetaria. Se una macchina costata 1000 euro permette di fabbricare 1000 unità di una data merce prima di diventare inutilizzabile, si calcolerà che sul costo di produzione di ciascuna merce unitaria, un euro rappresenti l’usura della macchina. Questi calcoli monetari sono soltanto l’espressione di quel calcolo in termini di tempo di lavoro rivendicato dal GIC [Groep van Internationale Communisten, Ndt]23. Come abbiamo già rimarcato, nel suo piano il GIC esprime la pura utopia di un valore senza denaro nel momento stesso in cui crede di superarlo. Tutto ciò equivale a dire che il trasferimento del valore dalla macchina alle merci che essa consente di produrre, non è altro che una ripartizione del tempo di lavoro dell’intera società su due gruppi di prodotti: il tempo necessario a produrre la macchina si aggiunge, in proporzione alla massa delle merci prodotte, agli altri tempi che sono necessari alla fabbricazione di tali merci.

Occorre infine parlare di trasferimento di valore nel caso degli scambi ineguali. Questi ultimi dipendono di solito dalle differenti condizioni di produzione all’interno di una medesima branca – cioè una data branca che produce una merce determinata. Il valore che i produttori delle altre branche devono pagare per acquistare questa merce, si stabilisce attraverso la media dei valori individuali di ciascun produttore della branca. In altri termini, se la maggior parte dei produttori effettuano uno scambio eguale con i loro compratori, altri, che sono più produttivi o meno produttivi della media, effettuano degli scambi ineguali. Nel primo caso, si ha una semplice permutazione delle forme del valore. Nel secondo, questa permutazione è accompagnata da un trasferimento di valore. Osserviamo il fenomeno più da vicino e cerchiamo di capire che cosa viene trasferito.

Sia M una merce, il cui valore sul mercato è rappresentato dalla somma di denaro A. La formula media, rappresentativa della branca, è per ciascuna merce prodotta:

A = c + v + p

Il valore di M è dato dalla somma del capitale costante consumato nella sua produzione (c) e del nuovo valore che il lavoro vivo vi aggiunge (v + p). Tutti gli acquirenti appartenenti alle altre branche della produzione pagano questa somma, socialmente riconosciuta come il valore della merce M, e quello effettuato appare dunque come uno scambio normale, una semplice permutazione delle forme del valore: M contro A. Tuttavia, alcuni produttori della nostra merce M sono più o meno produttivi rispetto alla media. Quando vendono il loro prodotto contro A, cioè al suo valore socialmente riconosciuto, essi vendono un prodotto che corrisponde a una formula differente rispetto a quella che rappresenta la media della branca, ovverosia:

A = c + v + p + Δ

la quale indica che il valore individuale della loro merce è inferiore o superiore rispetto alla media, a seconda che Δ sia positivo o negativo. Detto altrimenti, si tratta di uno scambio ineguale. In un caso come nell’altro, una quantità maggiore di valore si scambia contro una quantità minore di valore. Il capitalista più produttivo della media immette sul mercato una merce che contiene meno lavoro della media, e tuttavia vendendola ottiene in cambio la somma di denaro A, realizzando evidentemente un guadagno supplementare. E viceversa per il capitalista meno produttivo della media. La sua merce contiene più lavoro della media, ma egli riceve come contropartita soltanto A. Avviene dunque un trasferimento di valore? Dipende dai casi.

Nel capitolo sul livellamento del saggio del profitto, Marx scrive che, in condizioni normali d’equilibrio,

«le merci il cui valore individuale è inferiore a quello di mercato24 realizzano un extra-plusvalore o plusprofitto, mentre le merci il cui valore individuale è superiore a quello di mercato, non possono realizzare una parte del plusvalore che esse contengono.» (Karl Marx, Il Capitale, Libro III, cit., p. 254).

Per la nostra analisi, questo equivale a dire che se il produttore è più produttivo della media, e Δ è positivo, la differenza si manifesta come un extra-plusvalore. Tutto avviene come se i lavoratori del capitale più produttivo avessero lavorato più a lungo. Inversamente, nel caso in cui il nostro produttore sia meno produttivo della media, Δ è negativo, e sarà come se i suoi lavoratori avessero lavorato meno a lungo. Nel primo caso, il capitalista più produttivo ha scambiato meno valore contro più valore. Questo significa che il resto della società, rappresentato dal compratore, ha lavorato gratuitamente Δ ore per lui. Viceversa, nel caso del capitalista meno produttivo della media, Δ è negativo. Questo capitalista ha lavorato Δ ore gratuitamente, ma qui nessuno ne approfitta: pagando il valore A, l’acquirente certifica al capitalista che le Δ ore che egli ha lavorato (o fatto lavorare) in più rispetto alla media non possono essere inserite nella divisione sociale del lavoro. Si noterà en passant l’asimmetria tra le due situazioni, che discende dal legame fondamentale esistente tra valore e produttività. La società paga un premio al lavoro più produttivo della media, mentre lascia al suo destino quello meno produttivo.

In definitiva, cosa circola all’interno di questo meccanismo del valore medio relativo a una data sfera della produzione? Tempo di lavoro, ammesso che si possa dire che il tempo circola. Non vi è stato un trasferimento di valore se non nello scambio tra il capitalista più produttivo e il compratore della sua merce, e in questo caso il trasferimento consiste nel fatto che, senza accorgersene, il compratore ha consacrato gratuitamente Δ ore di lavoro al venditore, che le ha computate come plusvalore extra.

Il risultato al quale si perviene dopo queste considerazioni, è che non c’è bisogno di definire la sostanza del valore come un cristallizzazione – difficile da comprendere – del lavoro vivo in lavoro morto. Per comprendere come il valore circoli e si trasferisca nei differenti momenti del suo ciclo, è sufficiente conteggiare le ore di lavoro. Se dunque il valore deve avere una sostanza, diremo che questa sostanza è il tempo. Marx afferma da qualche parte che ogni economia è economia di tempo. Si tratta di un’osservazione molto profonda, che tuttavia Marx non ha sviluppato fino in fondo, fino cioè a stabilire che ogni vera emancipazione passa per la fine del vincolo del tempo imposto all’attività produttiva, vale a dire per l’abolizione della produttività. Il tempo è l’unica sostanza – se si deve mantenere questa espressione – del valore. Questo tempo non dà luogo ad alcuna cristallizzazione. Ma s’impone attraverso i suoi ritmi e le sue ripartizioni precise, come ciò che nessun produttore di valore può ignorare se vuole inserirsi nella divisione generale del lavoro.

4.2.3. La sostanza del valore come ciò che si misura

Siamo partiti alla ricerca della sostanza del valore, in primo luogo perché occorreva che il nesso tra lavoro e valore fosse espresso da qualcosa che, depositato nel prodotto del lavoro, rendesse manifesto che il lavoro è la sorgente del valore. Abbiamo visto che questo approccio non è più necessario nelle nuove condizioni in cui ci accostiamo alla questione del valore. In seguito, abbiamo cercato la sostanza del valore come ciò che circola nella società mercantile, sia tra i mezzi di lavoro e i prodotti del lavoro, sia tra i membri della società quando avviene un trasferimento di valore. Abbiamo quindi concluso che, se c’è qualche cosa che circola, si tratta semplicemente di tempo (di lavoro).

Il tempo, come nel progetto del GIC, appare così come ciò che conta e che viene contato. Ogni produttore privato indipendente si rapporta al lavoro dell’intera società calcolando, in un modo o nell’altro, il tempo che questo gli costa oppure gli rende. In tali condizioni, si può dire che il tempo sia la sostanza del valore, laddove rimane inteso che si tratta del tempo dei membri della società mercantile, vale a dire dei produttori, e che dunque parliamo di tempo di lavoro. Marx giunge a delle formulazioni prossime a questo punto di vista, in Per la critica dell’economia politica:

«Il tempo di lavoro oggettivato nei valori d’uso delle merci è la sostanza che fa dei valori d’uso valori di scambio e quindi merci, allo stesso modo che ne misura la determinata grandezza di valore. […] Come valori di scambio tutte le merci non sono che misure di tempo di lavoro coagulato.» (Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 12).

Il tempo è contemporaneamente la sostanza e la misura del valore. Perché Marx aggiunge che questo tempo è «coagulato» nel prodotto del lavoro? Forse, come abbiamo detto in precedenza, per certificare che il lavoro vivo lascia nella merce qualcosa, che «attesta» che esso è la sorgente del valore? Comunque sia, Marx riprende l’ultima frase del passaggio appena citato nella prima edizione del Capitale, ma la sopprime nell’edizione francese tradotta da Roy. Qui, il tempo di lavoro non interviene più se non come misura del valore, mentre le considerazioni sulla sostanza sono interamente dominate dalla nozione di cristallizzazione, o coagulazione, o congelamento etc. Maximilien Rubel suggerisce che Marx abbia soppresso il passaggio sul tempo di lavoro coagulato a fini di semplificazione, e se ne compiace, ritenendo che la formulazione scelta per l’edizione Roy sia molto più chiara. A mio avviso, questa formulazione «semplificata», che abbiamo studiato nel secondo capitolo della nostra ricerca, è tuttavia meno soddisfacente dell’approccio abbozzato in Per la critica dell’economia politica.

Per noi, ad ogni modo, le cose sono più semplici. Se il tempo è la sostanza del valore, la misura del valore coincide evidentemente con la misura del tempo, e viene computata in ore, giorni etc. E proprio come nel primo capitolo del Capitale, il valore di una merce è dato dalla media dei valori individuali delle merci all’interno di una stessa branca produttiva.

4.3. Scambio delle merci e realizzazione del valore

Ritorniamo alla realizzazione del valore. Possiamo dire, seguendo la problematica di Marx, e soprattutto quella di Rubin, che il valore richiede di essere realizzato perché il lavoro che l’ha prodotto è astratto? Non c’è bisogno di arrivare a tanto per garantire allo scambio il suo ruolo. Come abbiamo ripetuto più volte, lo scambio è il momento necessario in cui viene verificata l’inserzione del produttore privato nel lavoro sociale generale. Ciò non significa che prima dello scambio non sia stato prodotto alcun valore. Ricordiamo tuttavia che questo è il punto di vista di cui Rubin non riesce a liberarsi25. Per lui, è dentro il processo di scambio che il lavoro concreto «assume caratteristiche sociali […] divenendo sociale, astratto, semplice e socialmente necessario.» (Isaac Rubin, op. cit., p. 102).

Per noi, questo passaggio attraverso il mercato non è necessario per comprendere cosa sia il lavoro produttivo di valore. Già prima di arrivare allo scambio, l’abbiamo definito come lavoro specificamente e concretamente formattato dalle condizioni in cui si trovano ad operare i produttori privati indipendenti. All’interno di queste condizioni, lo scambio realizza il valore, ma in un senso meno radicale che in Rubin.

In primo luogo, lo scambio verifica, o constata, la scambiabilità del prodotto del lavoro. Lo abbiamo già detto molte volte: fino a quando lo scambio non ha luogo, non è affatto certo che la scommessa fatta dal produttore privato per inserirsi nella divisione sociale del lavoro sia vincente. Il primo modo di vincere la scommessa, è evidentemente vendere. Il secondo, è vendere a un buon prezzo.

È qui che, secondariamente, interviene lo scambio – o meglio, gli scambi, poiché il valore socialmente riconosciuto di una merce è una media, stabilita praticamente da molteplici scambi della medesima merce. È soltanto a questo punto che la società dei produttori privati può conoscere il tempo di lavoro socialmente necessario alla produzione di quella merce. Lo scambio fissa ad ogni istante quello che è il criterio di produttività richiesto per la produzione di ciascuna merce. Certo, questa norma è continuamente rimessa in discussione. Tuttavia, malgrado questa fondamentale instabilità, la merce alla fine viene venduta al valore medio del momento. Ma anche qui, la realizzazione del valore non significa che lo scambio generi il valore. Lo scambio riconduce tutti i valori individuali a un valore medio sociale, e abbiamo visto (§ 3.4.2.2) come ciò sia fonte di perdita o di guadagno per i produttori che non lavorano nelle condizioni sociali medie.

Da questo punto di vista, in terzo luogo, lo scambio è uno dei luoghi della devalorizzazione, nel senso di distruzione di valore. Quando lo scambio è tentato ma non avviene, o quando avviene al di sotto del valore individuale della merce, la realizzazione del valore consiste nella sua parziale o totale distruzione. Questo punto merita di essere sottolineato. Marx conclude la prima parte del primo capitolo del Capitale con la seguente osservazione:

«E, in fine, nessuna cosa può essere valore, senza essere oggetto d’uso. Se è inutile, anche il lavoro contenuto in essa è inutile, non conta come lavoro e non costituisce quindi valore.» (Karl Marx, Il Capitale, Libro I, cit., p. 50).

Ora, avendo messo da parte ogni considerazione di ordine morale, come valutare l’utilità di una cosa se non sottoponendola al test dello scambio? Certo, potremmo dire che il carbone, anche qualora risulti invendibile in ragione di una crisi di sovrapproduzione, è un oggetto utile per coloro che hanno freddo. Ma se si adotta il punto di vista normale della società mercantile, non è la risposta giusta. L’utilità del carbone, la sua capacità di riscaldare chi ha freddo, non cessa di esistere. Ma il suo valore d’utilità si realizza solo se lo scambio ha luogo. Nel caso in cui non trovi un compratore, il carbone in eccedenza non realizza né il suo valore di scambio né il suo valore d’utilità. Tutto ciò per dire che la questione dell’utilità di un lavoro particolare dev’essere valutata secondo la sua capacità di inserirsi nel lavoro sociale generale, in funzione del valore d’utilità e del valore di scambio del suo prodotto, e che l’utilità «naturale» della merce non ha nulla a che vedere con tale questione. Nel caso in cui la suddetta inserzione non si compia, lo scambio è anche il momento in cui il valore prodotto viene distrutto. Anche questo è parte della sua realizzazione.

È dunque questo lo statuto che occorre assegnare allo scambio nella definizione del valore: verifica della scambiabilità, media dei valori individuali e devalorizzazione. Esso interviene su questa base nella legge del valore per la ripartizione del lavoro sociale tra i differenti settori della produzione. Ma questa è un altra faccenda.

5. Lavoro semplice e lavoro complesso

Nel secondo capitolo, abbiamo lasciato in sospeso la questione del lavoro qualificato. Ricordiamo che Marx non è riuscito a trovare una soluzione a questo problema. Lo stesso Rubin è d’accordo su questo punto. Ma benché entri molto di più nel dettaglio, egli ripropone sostanzialmente la stessa ottica di Marx. Davanti alla necessità di spiegare perché e come, nel medesimo lasso di tempo, il lavoro qualificato crei più valore del lavoro semplice, entrambi offrono risposte che, in fin dei conti, equivalgono a dire che il lavoro qualificato costa più di quello semplice. Non ritornerò qui sulle formulazioni di Marx. Quanto a Rubin26, egli afferma che il prodotto del lavoro qualificato contiene più valore di quello del lavoro semplice, poiché è il risultato non solo del lavoro diretto del lavoratore qualificato, ma anche del lavoro di chi lo ha formato, oltre che del lavoro di apprendistato dello stesso lavoratore durante il suo periodo di formazione. Inoltre – dice Rubin – occorre tenere conto del tasso di insuccesso degli apprendistati. Se per ottenere un gioielliere qualificato bisogna formarne tre, di cui due non riusciranno ad ottenere la qualifica, il lavoro dei formatori e degli apprendisti che entra nel lavoro del lavoratore qualificato dev’essere moltiplicato per tre. Questa prospettiva equivale a spiegare la capacità del lavoro qualificato di creare più valore rispetto al lavoro semplice, con i costi di formazione del lavoratore qualificato. Infatti, il lavoro dei formatori non può essere computato come lavoro vivo nel momento in cui il lavoratore qualificato eroga la sua prestazione. Esso deve essere computato come costo di produzione della forza-lavoro qualificata. Il fatto che quest’ultima costi più della forza-lavoro semplice, implica che la merce che essa produce costi più cara, ma non che contenga una maggiore quantità di neo-valore. Un’ora di lavoro del gioielliere costa il doppio di un’ora di lavoro del fabbro? Il capitalista dovrà includere questo costo aggiuntivo nel prezzo dei gioielli, ma questo non ci dice nulla circa il nuovo valore creato dal gioielliere o dal fabbro.

È possibile seguire un’altra strada. Il lavoro qualificato, per Marx, è un lavoro «potenziato». È questa potenza superiore che bisogna spiegare. E la spiegazione viene da sé allorché si rinuncia al punto di vista fisiologico del lavoro creatore di valore. Consideriamo il lavoro valorizzante così come lo abbiamo definito in termini di produttività e normalizzazione, e mettiamo a confronto lavoro semplice e lavoro complesso. Pressappoco, il dispendio di nervi e muscoli è lo stesso per ogni unità di tempo. Se la creazione di valore dipende da questo dispendio, allora il lavoro complesso non crea più valore del lavoro semplice. Marx, cionondimeno, ha ragione quando parla del lavoro qualificato come di un «lavoro di più alta intensità, di maggiore peso specifico»27. Il tempo di lavoro del lavoratore qualificato, infatti, è come un tempo compresso. La formazione che egli ha ricevuto gli permette di risparmiare tempo in rapporto al lavoratore non qualificato. Se il capitalista affida una mansione qualificata a un lavoratore non qualificato, quest’ultimo sarà costretto a imparare sul campo, avanzando lentamente, sbagliando e ricominciando daccapo, prima di giungere all’esecuzione corretta della mansione. Ciò significa altrettante ore di lavoro spese in modo inefficace, laddove un lavoratore qualificato avrebbe completato il compito assegnatogli in un batter d’occhio. Il supplemento di valore creato dal lavoro qualificato corrisponderebbe, quindi, a questa economia di tempo. Ricorrendo al risparmio di tempo che il lavoro qualificato consente, propongo una soluzione che, pur senza permettere di calcolare il rapporto tra il tempo di lavoro del fabbro e quello del gioielliere, lascia interamente da parte la questione del salario e del costo di riproduzione di ciascuna di queste forze-lavoro. Inoltre, riconducendo la questione a quella del tempo, si rimane all’interno della problematica della sostanza del valore così come abbiamo cercato di ridefinirla.

6. Conclusione provvisoria

Per cercare di comprendere il valore, non abbiamo scelto come punto di partenza la merce, come Marx nel primo capitolo del Capitale, ma la produzione capitalistica poggiante sulle sue proprie basi. Il valore ci è innanzitutto apparso come il vasto sistema di interdipendenza dei capitali, a loro volta in continua crescita, divisione e moltiplicazione. Il segreto del valore è la divisione del lavoro sotto forma di divisione della proprietà. Questa risponde alla necessità di accrescere la produttività del lavoro. Quanto a quest’ultima, essa non obbedisce a un qualsivoglia imperativo astratto di progresso delle forze produttive, ma corrisponde alla ricerca di un più efficace sfruttamento del lavoro. Lo sfruttamento del lavoro, infine, non richiede alcune spiegazione: esso è la forma normale e necessaria del lavoro.

Se lo sfruttamento del lavoro è la causa prima della divisione del lavoro e della divisione della proprietà, bisogna dedurne che lo scambio non è il meccanismo centrale dello sviluppo del valore. Ciò equivale ad affermare che il rapporto sociale fondamentale tra gli uomini è lo sfruttamento del lavoro, e non l’interdipendenza dei produttori privati che si incontrano sul mercato. Marx, e molti al suo seguito, parla del mercato come del luogo in cui si formano i rapporti sociali tra i produttori. Questo significa conferire al termine «rapporto sociale» un senso ben preciso, e piuttosto ristretto, poiché si tratta qui soltanto della matrice generale delle differenti branche della produzione e – per dirla con gli economisti – dei loro rapporti di input e output. In questo contesto, «rapporto sociale» equivale a «economia». Tali rapporti tra produttori o branche sono certamente indispensabili all’esistenza del lavoro sociale complessivo ma, appunto, essi non vanno oltre l’economia. I «critici del valore»28 hanno ragione quando denunciano la reificazione di tali rapporti e la loro apparente assurdità, ma hanno torto nella misura in cui si limitano a questo. I produttori privati indipendenti del primo capitolo del Capitale sono dei capitali, con padroni e salariati. Questi capitali hanno dei rapporti reciproci perché sono interdipendenti. Tali rapporti sono quelli inerenti lo scambio, e possiamo certo definirli «rapporti sociali». A condizione, però, di non dimenticare l’essenziale: dietro la complementarietà dei capitali individuali, che si verifica effettivamente attraverso lo scambio, c’è la lotta di classe tra padroni e salariati attorno alla produzione di nuovo valore (v+p). Il vero rapporto sociale del modo di produzione capitalistico si trova qui, e unicamente qui.

Abbiamo visto che la produzione di valore può essere analizzata in modo analogo a quanto fa Marx nel Capitale, cioè facendo astrazione dalle qualità specifiche del lavoro concreto. Ma, seguendo questa strada, siamo arrivati alla conclusione che anche il lavoro astratto in qualche modo è concreto. Quello che abbiamo definito lavoro valorizzante è in effetti l’attività di normalizzazione e di ricerca della produttività, in quanto momenti del lavoro, che tutti i produttori devono necessariamente sviluppare congiuntamente all’aspetto concreto dei loro lavori, in ragione del loro statuto di produttori privati. Questa ricerca non è un di più inventato dai padroni per accrescere i loro guadagni. Così come ogni lavoro – e a dire il vero ogni attività umana – è dispendio di muscoli e di nervi, allo stesso modo ogni produzione di valore non può esistere che come ricerca di produttività e di normalizzazione. Questo è il modo di definire il valore direttamente al livello della produzione. Bisogna concluderne che il lavoro che produce valore è concretamente specificato dal fatto di essere lavoro valorizzante. Nella società capitalistica attuale, qualunque oggetto si consideri, dal più semplice al più complesso, il modo di produrre e il valore d’utilità che ne risultano non hanno niente di naturale o di normale. Definirli come semplice scambio organico con la natura è del tutto insufficiente, poiché ogni attività è specificata come produzione di valore. Bisogna inoltre concluderne che l’abolizione del valore non consisterà nella liberazione di questo lavoro e delle sue forze produttive, ma in una rivoluzione completa del modo di considerare il rapporto immediato tra gli uomini, e tra questi, la natura e la produzione sociale.


Note :

1 Cfr. Capitolo I.

2 Bruno Astarian, Alcune precisazioni sull’anti-lavoro, disponibile qui: http://illatocattivo.blogspot.com/. [Ndt]

3 Bruno Astarian, Activité de crise et communisation, disponibile qui: http://www.hicsalta-communisation.com/.

4 Cfr. Capitolo II.

5 Isaac Rubin rivendica espressamente la scelta di questo contesto precapitalistico per ragioni di semplificazione. [Cfr. Isaac Rubin, Saggi sulla teoria del valore di Marx, Feltrinelli, Milano 1976. Ndt].

6 Cfr. Bruno Astarian, Robert Ferro, Le ménage à trois de la lutte des classes. Classe moyenne salariée, prolétariat et capital, Éditions de l’Asymétrie, Toulouse 2019; di prossima pubblicazione in traduzione italiana. [Ndt]

7 Cfr. Hermann Gorter, Risposta a Lenin (1920), in Enzo Rutigliano (a cura di), Linkskommunismus e la rivoluzione in occidente, Dedalo Libri, Bari 1974. [Ndt]

8 Nelle pagine che seguono, impieghiamo l’espressione «mezzi di sussistenza» per designare il paniere delle merci necessarie alla riproduzione dei proletari.

9 Nell’edizione francese del Capitale (Pléiade, tomo I, p. 645), il termine métier (mestiere) viene impiegato per indicare l’insieme delle funzioni del produttore privato indipendente di merci. [Ndt]

10 Tralasciamo, per il momento, il consumo dei capitalisti, che tratteremo a parte.

11 Cfr. Bruno Astarian, Le Travail et son dépassement, Éditions Senonevero, Parigi 2001 (prima parte).

12 Cfr. Capitolo II.

13 Almeno in prima analisi. Più fondamentalmente, è la lotta di classe (cfr. Capitolo VII).

14 Cfr. Capitolo I.

15 Per noi, il fatto stesso che il comunismo si sottragga alla nozione di produttività, fa sì che la nozione di sviluppo delle forze produttive non vi abbia più alcun senso. Questo non significa che non si inventeranno macchine perfezionate capaci di produrre velocemente, e senza sforzi inutili, molte cose.

16 Cfr. Capitolo II.

17 Cfr. Capitolo II.

18 Cfr. Capitolo II.

19 Cfr. Capitolo I.

20 Cfr. Capitolo VIII.

21 Cfr. Capitolo IV.

22 Cfr. Capitolo II.

23 Gruppo comunisti internazionali olandesi (GIK-H [sic]), Principi fondamentali di produzione e di distribuzione comunista [1930], Jaca Book, Milano 1974. Il GIC fu un piccolo gruppo di matrice consiliare attivo in Olanda tra la fine degli anni ‘20 e la fine degli anni ‘30 del secolo scorso. [Ndt]

24 Il valore di mercato è definito da Marx come «il valore medio delle merci prodotte in una certa sfera di produzione [o] come il valore individuale delle merci che sono prodotte nelle condizioni medie della loro rispettiva sfera di produzione e che costituiscono la grande massa dei suoi prodotti.» (Karl Marx, Il Capitale, Libro III, p. 254).

25 Cfr. Capitolo II.

26 Isaac Rubin, op. cit., Capitolo XV, “Lavoro qualificato”, pp. 127-136.

27 Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, cit., p. 13.

28 L’Autore si riferisce qui agli esponenti della Wertkritik (critica del valore). Cfr. L’Abolition de la valeur, Capitolo VI. [Ndt]